La Corte di Cassazione, con sentenza n. 5080 del 13,3,2015, «ha ritenuto che il possesso da parte del lavoratore della laurea in medicina non fosse sufficiente per l’esercizio di attività riabilitativa per la quale occorre apposito diploma universitario, sebbene (sic!) il lavoratore in questione fosse abilitato a svolgere funzioni ausiliarie». In conclusione, ribadisce la Cassazione, «la laurea in medicina consente l’espletamento di attività ausiliarie ma non anche di attività, quale la terapia riabilitativa, che non hanno tale carattere e il cui svolgimento postula uno specifico diploma». Il Consiglio di Stato altresì ha consentito ai laureati in psicologia di concorrere al posto di dirigente di unità complessa di salute mentale, affermando che i compiti direzionali gestionali non abbiano implicazioni cliniche tali da presupporre la laurea in medicina. Ma cosa si intende per gestione di attività sanitarie? Allora, per la mera gestione di un qualsiasi processo produttivo, meglio un infermiere esperto oppure, perché no?, il cosiddetto ingegnere clinico.
Qualche anno fa in Toscana fu inventato il “see and treat”, strumento utile per smaltire l’affollamento dei Pronti soccorso, nel quale tuttavia il medico concordava con gli infermieri quali prestazioni questi potessero svolgere in autonomia e le insegnava. L’infermiere poi avrebbe risposto in prima persona dei suoi atti. Allora chi ebbe questa pensata, tra cui l’autore di questo articolo, fu penalmente denunciato da altri presidenti di Ordine con l’accusa di lesa maestà professionale e costretto a giustificarsi dai carabinieri che però furono più intelligenti dei colleghi.
Adesso tutti piangono sul comma 566 e sul Patto della salute che lascia agli infermieri autonomia didattica e di scelta dell’ambito delle prestazioni da svolgere senza chiarire i confini della responsabilità. Adesso tutti invocano un sistema quale quello a suo tempo inventato in Toscana perché si rendono conto che la professione sopravvive se è autoreferenziale sul piano formativo e la medicina sta cessando di esserlo.
Ma mentre i medici litigano come i celebri capponi di Renzo la magistratura sentenzia e così supplisce alle carenze della politica. E allora i medici (in particolare i giovani) si trovano stretti tra due fronti. La perniciosa mania dei medici di voler definire l’atto medico in un mondo di professioni emergenti, tutte fondate come quella medica sulla protezione del titolo, espone i laureati in medicina, una volta definiti gli ambiti delle altre professioni sanitarie, al rischio di esercitare abusivamente ove svolgessero, come può succedere, una prestazione tipica di altri iscritti ad altro albo. I medici hanno sempre pensato che, in caso di mancanza di lavoro (cosa sempre più verosimile), potessero svolgere altre mansioni professionali all’interno della sanità. La Cassazione ci risveglia da un sonno beatamente autoreferenziale.
Nello stesso tempo i medici hanno sempre pensato che le funzioni dirigenziali all’interno delle strutture sanitarie non potessero essere svolte altro che da laureati in medicina. Ovvio e logico. Ma i magistrati e le amministrazioni non sono affatto d’accordo. Insomma il lavoro medico è stretto da ogni parte; inoltre, grazie ai vistosi errori di programmazione, è minacciato da una strisciante sottoccupazione. Non vi è dubbio che spetta la medico la leaderschip del processo di cura, compresa la parte assistenziale. Il medico effettua la diagnosi differenziale e prescrive la terapia; mancano però norme precise che esplicitino i limiti di questa controversa affermazione (si pensi al parto naturale o al triage). Non dovremmo parlare di atto medico ma di atto del medico che non può aver alcun limite se non quelli imposti dalla scienza e dalla deontologia. Il mondo ormai si orienta a valutare le competenze e dà rilievo al titolo solo per l’esercizio di particolari compiti. La scienza e la tecnica si evolvono con troppa rapidità per lasciare diritti perfetti a chi si è laureato magari qualche decennio or sono e nel frattempo ha fatto un altro mestiere.
Il periodo che attraversiamo non è particolarmente felice per i medici, dopo i trionfi sociali e professionali del secolo scorso. E neppure è facile proporre soluzioni. Ecco perché è essenziale che qualcuno prosegua questo dibattito, sperando che i giovani partecipino con idee innovative.
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il sole 24 ore.