Il conflitto istituzionale tra Stato e Regioni, temporaneamente sedato dalla sofferta approvazione del Patto per la Salute è violentemente esploso con il varo della legge di Stabilità: da un lato i Governatori hanno denunciato l’insostenibilità di una manovra da 4 miliardi che si ripercuoterebbe principalmente sulla Sanità, dall’altra il presidente del Consiglio ha ribattuto a suon di tweet invitando le Regioni a un maggiore senso di responsabilità nell’individuare gli sprechi in Sanità – “manager, primari, acquisti” – e definendo “inaccettabile” sia l’ipotesi di tagli ai servizi sanitari, sia l’introduzione di nuove imposte. Chiamparino, portavoce dei Governatori, ha quindi invitato il premier a non dimenticare gli sprechi dei Ministeri, denunciando che la legge di Stabilità ha incrinato il rapporto di lealtà istituzionale e di pari dignità tra enti dello Stato. Renzi ha ribadito con fermezza che “i miliardi sono quattro e su questo non c’è spazio per mediazioni” e adesso siamo in attesa del “lodo Chiamparino” con le proposte delle Regioni per rendere sostenibile la manovra, senza intaccare la Sanità.
Queste scaramucce a distanza confermano che la delegittimazione politica e morale delle Istituzioni ha ormai generato un confronto tra poli indeboliti, con compromessi che si giocano sempre più al ribasso. Considerato che il conflitto istituzionale tra Stato e Regioni in Sanità finirà per ripercuotersi su cittadini, pazienti e famiglie, in particolare sulle fasce più deboli, la domanda sorge spontanea: la politica intende realmente tutelare la salute dei cittadini italiani, secondo quanto previsto dall’articolo 32 della Costituzione? Oppure le schermaglie tra Stato e Regioni mirano esclusivamente a mantenere potere e disponibilità di risorse, perché ormai è stata silenziosamente imboccata la strada dell’intermediazione assicurativa e finanziaria dei privati e tra le priorità della politica non rientra la salvaguardia del servizio sanitario nazionale? Infatti, a fronte dello stridente contrasto tra le dichiarazioni di numerosi Governatori – che, seppure con toni differenti, hanno alzato le barricate all’unisono – e quelle del premier Renzi e dei Ministri Padoan e Lorenzin – che invitano le Regioni a rendere più efficienti i loro servizi sanitari – sembra evidente che, continuando a giocare a rimpiattino, la politica sta contribuendo ad affondare il nostro modello di Sanità pubblica, equa e universalistica.
Proviamo a rimettere in fila fatti ed evidenze da cui ripartire, con il fine ultimo di porre al centro del SSN la salute e il benessere dei cittadini italiani, oltre che le loro capacità di realizzare ambizioni e obiettivi che rappresentano il vero ritorno delle risorse investite in Sanità.
• L’art. 1 del Patto per la Salute ha fissato le risorse per il triennio 2014-2016, “salvo eventuali modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico”. Ai Governatori deve essere sfuggito che questa clausola non mette definitivamente in sicurezza il finanziamento del SSN, indipendentemente dal fatto che nella legge di Stabilità il Governo, giocando di fino, non abbia formalmente previsto tagli alla Sanità.
• Lo stesso art. 1 precisa che i “risparmi derivanti dall’applicazione delle misure contenute nel Patto rimangono nella disponibilità delle singole Regioni per finalità sanitarie”. Questo significa che le Regioni devono avviare e mantenere un virtuoso processo di disinvestimento (da sprechi e inefficienze) e riallocazione (in servizi essenziali e innovazioni), coinvolgendo attivamente le aziende sanitarie e queste, a cascata, i professionisti sanitari. In linea con questo principio, la legge di Stabilità ha confermato che il conseguimento degli obiettivi di salute e assistenziali da parte dei direttori generali costituisce adempimento ai fini dell’accesso al finanziamento integrativo del SSN e comporta la loro decadenza automatica in caso di inadempimento.
• Anche se siamo stati costretti ad accogliere nella nostra amata lingua il termine “efficientamento” e a familiarizzare con il tormentone del “costo delle siringhe”, l’identificazione degli sprechi richiede da parte delle Istituzioni un approccio meno informale e più strategico. Esiste una tassonomia degli sprechi, definita a livello internazionale e utilizzata dalla Fondazione GIMBE nel progetto “Salviamo il Nostro SSN”, che identifica sei categorie di sprechi: sovra-utilizzo (overuse) di servizi e prestazioni sanitarie inefficaci o inappropriate, frodi e abusi, tecnologie sanitarie (oltre che beni e servizi non sanitari) acquistati a costi eccessivi, sotto-utilizzo (underuse) di servizi e prestazioni sanitarie efficaci e appropriate, complessità amministrative, inadeguato coordinamento dell’assistenza tra vari setting di cura.
• Ciascuna delle categorie di sprechi può essere arginata solo condividendo gli obiettivi tra Stato e Regioni, utilizzando metodi e strumenti efficaci e coinvolgendo attivamente aziende sanitarie e professionisti. L’impressione generale è che, in assenza di una regia nazionale, la spending review “interna” non sia facilmente attuabile dalle Regioni, in particolare da quelle in grado di concretizzare una congiunzione astrale fatta di inadempimenti dei livelli essenziali di assistenza + conto economico negativo + aumento delle imposte regionali + mobilità sanitaria passiva. Se è vero che tutte le risorse recuperate devono rimanere nel comparto sanitario, diverse Regioni non riusciranno nella duplice titanica impresa di disinvestire e riallocare, perché avvezze a difendere strenuamente anche servizi sanitari inefficaci, inappropriati e spesso dannosi per mere logiche di consenso elettorale.
• Se il mantra del Patto per la Salute è rinunciare a una spending review centralista, fatta prevalentemente di tagli lineari, lo Stato non può permettersi il lusso di delegare alle autonomie regionali l’identificazione degli sprechi che si annidano a tutti i livelli senza fornire chiare linee di indirizzo, perché rischia di commettere lo stesso errore del 2001, quando con la riforma del Titolo V ha “consegnato” la Sanità alle Regioni, rinunciando alle indispensabili attività di indirizzo e verifica. Oggi le conseguenze di una abdicazione dello Stato sarebbero di gran lunga più disastrose, perché non ci sono risorse in esubero per compensare ritardi, errori e furberie.
• In questa rinnovata conflittualità tra Stato e Regioni, alle operazioni di salvataggio della Sanità pubblica continua a mancare il contributo attivo dei professionisti sanitari, “spettatori innocenti” e incapaci di qualunque reazione propositiva. Infatti, tutte le categorie professionali variamente schiacciate tra contingenti necessità di contenere i costi, irrealistiche aspettative dei cittadini e assillanti timori medico-legali, preferiscono concentrare gli sforzi nel mantenere privilegi acquisiti e/o rivendicare i propri interessi di categoria.
Stato e Regioni devono riaprire una stagione di leale collaborazione, tenendo presente che al servizio sanitario nazionale non servono riforme, ma azioni mirate e innovazioni di rottura che richiedono volontà politica condivisa, un’adeguata (ri)programmazione sanitaria basata sulle conoscenze, un management rigenerato, una rigorosa governance dei conflitti di interesse, l’impegno collaborativo di tutti i professionisti sanitari e la riduzione delle aspettative dei cittadini nei confronti di una medicina mitica e di una sanità infallibile. Se la politica non sarà in grado di cogliere questa opportunità, dovrà prendere atto che di fronte all’Europa e al mondo intero è anacronistico continuare a sbandierare una Sanità pubblica, equa e universalistica, visto che oggi i fatti smentiscono l’articolo 32 della Costituzione e i princìpi fondamentali del SSN.
fonte: L’huffington Post.it