Le professioni sono degli artefatti sociali in cui gli aderenti cercano di massimizzare in tutti i modi le proprie utilità nella divisone sociale del lavoro sanitario; e per raggiungere tale scopo utilizzano la legittimazione sociale, anche attraverso la roboante definizione di codici deontologici, come mezzo per potere raggiungere l’unica cosa che conta ovvero sia l’esclusiva su determinate attività
23 LUG – Il fascino dello scritto è la sua leggibilità infinita e senza tempo, la sua duttilità ad essere rivisto, cestinato e riesumato prima della sua stesura definitiva. Il fascino dello scritto è anche l’effetto schiuma che si assapora nel rileggerlo e che si spera possa affiorare dalle labbra di chi lo incontra la prima volta. Il testo ci qualifica, ci squalifica a seconda dei casi, ma in ogni caso ci definisce per quello che siamo o per quello che vogliamo apparire.
Il testo è allora anche il segno della nostra appartenenza, la distinzione di cui parla Bourdieu che ci stratifica nello spazio sociale. E così nel testo il linguaggio che si vuole significare è indissolubilmente mescolato al metalinguaggio che demarca il nostro status e che nulla vuol comunicare nel concreto. Da strumento esso può diventare mezzo senza finalità.
Il testo infatti non è scritto per nessuno in particolare; esso non ha un interlocutore di riferimento come il discorso. E una volta scritto o meglio assemblato riutilizzando una infinità di volte quello che si udito o si è letto, il testo diventa di tutti perdendo ogni nesso con il presente e la contingenza che lo ha generato.
Terribile permanenza del testo perché nella sua materialità seppur variabile a seconda del mezzo con cui è realizzato esso resta attaccato come un peccato non redento che chiunque può richiamare e chiedercene conto.
Questa ambivalenza del testo dovrebbe consigliare a tutti noi che lo utilizziamo una prudenza supplementare; una particolare sobrietà nella polemica dove talvolta è meglio dire poco che dire troppo e dove è ancora più opportuno mantenere uno stile semplice e diretto che annulli per quanto possibile le distanze e differenze anche in termini di capitale culturale posseduto.
E così leggo l’indignazione di Marcella Gostinelli che nel suo intervento erudito e cerimonioso addita al pubblico ludibrio la scelta mercenaria della FNOMCEO (“impersonale, antirelazionale e cupa”) di pubblicare a pagamento un proprio appello a difesa della professione medica sui giornali. Una posizione che può essere condivisibile ma che non ci deve fare dimenticare che furono proprio i collegi infermieristici nel 2008 i primi a comprare una intera pagina sul Corriere e La Repubblica per esprimere la loro posizione sul mancato provvedimento di istituzione degli ordini professionali.
Marcella Gostinelli affronta poi la vessata quaestio del conflitto interprofessionale esplicitando i desiderata di cittadini e infermieri sulle caratteristiche che il medico redento da incrostazioni semantiche improprie relativamente al concetto di “dominanza” che sembra diventato una chiave che apre tutte le porte o al contrario un idolo da abbattere” dovrebbe avere.
Ecco il suo pensiero. “I cittadini, gli infermieri e gli altri operatori non vogliono un medico nostalgico, fragile e disorientato, vorrebbero un medico forte che si interroga, ribelle e fermo sul suo essere. In particolare, credo di poter dire che noi infermieri vorremmo che il medico si interrogasse sul valore euristico del concetto stesso di dominanza medica” e più oltre ci spiega come nel concreto il medico, finalmente mondato dal peccato, dovrebbe finalmente apparire “Il medico ribelle e che vorremmo, invece, agisce come singolo, con concretezza e su casi concreti di fronte ai quali per sapere cosa è giusto non cerca teorie o regolamenti pensati da chi amministra, ma attinge alla sua moralità e semplicità di essere medico. Essere medico è semplice, purché risieda ancora in lui una qualche purezza”.
L’autrice utilizza dunque un linguaggio più evocativo che argomentativo prendendo a piene mani da una ottima letteratura sociologica e citando due professori di sociologia Guido Giarelli e Giovanna Vicarelli di cui ho la fortuna di essere amico e che sono due studiosi di livello internazionale.
Le citazioni tuttavia a mio modesto avviso non sono esaustive del problema e se assunte come tali – come spesso accade – invece di avere un effetto di svelamento hanno quello del suo opposto: l’occultamento.
Più modestamente consiglio a Marcella Gostinelli di riprendere in considerazione l’opera di I. Goffman e i suoi fondamentali contributi di microsociologia e di analisi dei contesti reali anche sanitari, che lui ha svolto a partire dal manicomio psichiatrico e che ha illustrato in un libro straordinario Asylum uscito in Italia grazie soprattutto a Basaglia che ne scrisse la presentazione.
Ora nel conflitto che oppone i diversi professionisti sanitari le componenti soggettive (l’essere ribelle, l’essere singolo) o psicologiche (l’essere puro) a cui la gentile autrice fa riferimento sono prive di significato reale in quanto occultano la pasta di cui sono fatte le professioni. Più brutalmente le professioni sono degli artefatti sociali in cui gli aderenti cercano di massimizzare in tutti i modi le proprie utilità nella divisone sociale del lavoro sanitario; e per raggiungere tale scopo utilizzano la legittimazione sociale, anche attraverso la roboante definizione di codici deontologici (nella maggioranza dei casi assolutamente inutili e privi di efficacia), come mezzo per potere raggiungere l’unica cosa che conta ovvero sia l’esclusiva su determinate attività.
L’atteggiamento delle singole professioni dunque è sempre e costantemente uniforme e gli infermieri hanno dimostrato di essere più corporativi dei medici quando si rifiutarono, come ho più volte detto e scritto, di sanare gli infermieri generici nonostante che questi svolgessero in molti casi identiche mansioni rispetto ai professionali.
Dunque lasciando da parte la sociologia dotta il problema va riportato all’origine: chi affronta il percorso di studi di una determinata professione lo fa con l’obiettivo di esercitare le attività che definiscono quella specifica professione e non altra.
Nel caso dei medici tutto il percorso formativo, lungo, faticoso e complesso è orientato a formare dei professionisti che siano capaci si formulare una diagnosi e di prescrivere le terapie necessarie al paziente. Nel caso degli infermieri lo stesso percorso è indirizzato verso l’assistenza. Due aspetti complementari ma non intercambiabili. In tale processo è invitabile che la leadership sia del medico perché l’assistenza è in funzione della diagnosi e terapia e non viceversa.
Un ampliamento delle competenze degli infermieri è giusto ed auspicabile ma non può avvenire entrando in campi che devono restare preclusi ai non medici perché a essere danneggiati sarebbero i pazienti che non avrebbero una diagnosi e una terapia affidabile. Altra cosa è la gestione di tipo manageriale che dovrebbe essere affidata a professionisti specificamente addestrati attraverso un percorso di studi da istituire ex novo. Bisognerebbe dunque creare una figura professionale che attualmente è inesistente e che viene surrogata impropriamente dai medici. Altro che ampliamento delle competenze, sarebbe una rivoluzione copernicana a cui purtroppo i collegi non sembrano interessati essendo impegnati in una guerra di logoramento con i medici che questa si è assolutamente priva di senso.
Roberto Polillo
Quotidianosanita.it