(Da il fattoquotidiano) Regno Unito,
La mancanza di concorsi e assunzioni dal 2008, l’assenza di prospettive e di contratti a tempo indeterminato spinge molti professionisti sul mercato inglese, dove i nostri connazionali sono oltre 2.500. Tanti di loro vorrebbero tornare, ma a una condizione: “Vogliamo il posto fisso”
di Ludovica Liuni.
Hanno meno di trent’anni, una laurea in scienze infermieristiche e nessuna intenzione di perdere tempo in Italia. Il loro presente è in Inghilterra, il futuro chi lo sa.
Il fenomeno, riferisce l’organizzazione Nursing & Midwifery Council, ormai coinvolge oltre 2.500 italiani e stando alle stime dell’Ipasvi, la Federazione Nazionale Collegi Infermieri, si è registrato un incremento del 70% negli ultimi tre anni. Fino al 2012, infatti, chi decideva di trasferirsi oltremanica lo faceva più per scelta che per necessità. Ma da quando l’Inghilterra si è trasformata in una meta così ambita?
Inghilterra, selezione per merito e possibilità di crescita – In Inghilterra il 40% della forza lavoro negli ospedali è costituita da infermieri e medici stranieri. E se la fetta maggiore di assunti arriva dalle Filippine e dall’India, negli ultimi sei anni anche italiani, spagnoli e portoghesi hanno fatto la loro parte. A oggi il Nursing & Midwifery Council ha stimato che oltre ai 2.500 operatori sanitari arrivati dal nostro paese, ce ne sono più di 10mila che vengono dalla penisola iberica. E, come è emerso da un servizio della Bbc, il boom è avvenuto a partire dal 2011, con l’acuirsi della crisi economica.
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Tre le procedure di “reclutamento”. La prima è rappresentata dalle agenzie private che fanno da intermediario tra i laureati italiani e gli ospedali inglesi. La selezione, spesso, avviene con un semplice colloquio via Skype. Poi ci sono gli infermieri freelance, che cercano da sé un posto disponibile. Infine c’è il sistema sostenuto dall’Ipasvi, la Federazione Nazionale Collegi Infermieri, che mette online i bandi che arrivano dagli ospedali inglesi.
“Questa è la soluzione su cui puntiamo di più – spiega a ilfattoquotidiano.it Luigino Schiavon, presidente della Federazione Ipasvi di Venezia – perché non ci sono di mezzo le agenzie”. Il primo step è mandare il proprio curriculum, poi sono le stesse infermiere inglesi a venire in Italia per completare la selezione. “Arrivano qui per valutare motivazioni e competenze dei candidati”, aggiunge Schiavon. Per ora i giovani reclutati con questa modalità sono circa 1.200. Un sistema ben avviato, dunque.
Ma quali sono le ragioni che spingono i ragazzi italiani a dare la priorità all’Inghilterra rispetto agli altri Paesi europei? “Lì il ruolo professionale è molto valorizzato dal sistema sanitario – spiega Schiavon – e dopo sei mesi di affiancamento gli infermieri sono regolarmente assunti con un contratto a tempo indeterminato”. Quello che affascina di più, però, sono le prospettive di crescita: “La progressione di carriera avviene per merito – spiega -. Si parte da un salario minimo di 26mila sterline all’anno per arrivare a 98mila sterline quando si raggiunge l’apice”.
Negli ultimi mesi, però, il governo inglese ha messo una stretta sugli ingressi. Da gennaio 2016 per essere assunti sarà necessario possedere alcuni requisiti linguistici, tra cui il superamento dello Ielts (International English Language Testing System) negli ultimi due anni o lo svolgimento di un corso con almeno il 75% di interazione clinica in inglese.
Italia, assunzioni a singhiozzo dal 2008 – I dati pubblicati dall’Ocse nel 2014 parlano chiaro: nel nostro Paese mancano circa 60mila infermieri e, al tempo stesso, sono ben 25mila i neolaureati che non riescono a trovare lavoro. Un paradosso che si traduce nella chiusura dei reparti e nella riduzione dei posti letti. Il problema è la mancanza di concorsi e assunzioni: “Dal 2008 la crisi economica ha ridotto il finanziamento al sistema sanitario e ormai abbiamo alle spalle anni di blocchi del turnover e dei contratti – spiega a ilfattoquotidiano.it Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione Nazionale dei Collegi Ipasvi -, questo significa che noi formiamo il giusto numero di infermieri, ma loro poi non vengono assorbiti dalla pubblica amministrazione”. Motivo per cui decidono di andare via.
Gli italiani, poi, sono molto corteggiati dagli altri Paesi europei: “Le agenzie governative che prendono contatto con noi ci dicono che i nostri infermieri sono i più ricercati grazie alle loro competenze”. L’unica speranza è che le assunzioni vengano sbloccate: “La politica deve dare a questi giovani la possibilità di tornare – spiega Mangiacavalli -, in questo modo avremo sul mercato dei professionisti arricchiti dalla loro esperienza all’estero”.
Bisogna però sfatare un mito. Non è vero che gli italiani che vanno via sono rimpiazzati da infermieri di altre nazionalità. La quota di stranieri che lavorano negli ospedali pubblici italiani è piuttosto bassa: su 430.537 iscritti all’Albo nazionale solo 27.278 vengono dall’estero. “La maggior parte degli infermieri romeni e bulgari che sono in Italia operano nelle strutture privato-assistenziali”, sottolinea la presidente Mangiacavalli.
Gli infermieri in Inghilterra: “Qui siamo persone, non numeri” – Antonio Torella è un infermiere pugliese trapiantato a Bologna. Per lui, 31 anni e una laurea conseguita nel 2007, quella inglese è stata una parentesi lavorativa che si è appena conclusa. “Faccio parte dell’ultima generazione che è riuscita a entrare negli ospedali italiani tramite concorso pubblico e a ottenere un contratto a tempo indeterminato”, racconta a ilfattoquotidiano.it.
Ma Antonio, dopo otto anni di lavoro senza prospettive di crescita, sentiva il bisogno di fare un’esperienza all’estero: “Ho chiesto un periodo di aspettativa non retribuita per andare in Inghilterra”, spiega. La sua destinazione è stata un ospedale pubblico di Brighton, ottanta chilometri a sud di Londra. Qui Antonio è venuto a contatto con i problemi di una generazione vicinissima alla sua e al tempo stesso molto distante: “Per la prima volta ho vissuto tutte le preoccupazioni di questi ragazzi appena laureati che sono costretti ad andare all’estero per trovare lavoro”, ammette.
Giovani che non possono fare altro che rispondere alle sirene inglesi. È il caso di Liliana Mistretta, 26 anni, stanca di aspettare un posto fisso che non arrivava mai: “Dopo la laurea ho lavorato per sei mesi nel privato, poi ho fatto l’infermiera domiciliare con partita Iva, ma non vedevo crescita professionale”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Così nove mesi fa è andata via, senza nemmeno sapere bene l’inglese: “All’inizio ho cercato lavoro in una casa di riposo perché volevo migliorare la lingua, poi dopo qualche mese mi hanno offerto un contratto a tempo indeterminato in un ospedale di Brighton”. E ora non può che dirsi soddisfatta: “In Inghilterra siamo persone e non numeri”, ammette.
Il lavoro è duro, ma le prospettive di crescita sono un incentivo a fare di più. Lo conferma Flavia Amendola, 24 anni, da quattro mesi in servizio a Brighton: “Ho capito subito che in Italia non c’era spazio per me”, ricorda. Così ha deciso di partecipare a uno dei colloqui che le agenzie inglesi organizzano in Italia: “Ho fatto una prova scritta e una di anatomia medica e ho superato entrambe”, ricorda.
Ora lavora nel reparto di medicina d’urgenza, ma il bello del sistema inglese è che ti permette di cambiare e di crescere: “Qui il merito è al centro del sistema – spiega -, se partecipi ai corsi di aggiornamento sali di livello”. In questo modo crescono le responsabilità, ma anche i guadagni. Tutte opzioni che in Italia non vengono prese in considerazione: “Nel nostro Paese ho visto infermieri leggere un ecocardiogramma meglio dei medici, ma la nostra professione è sottopagata e bistrattata da tutti”. Entrambe, però, sognano di tornare a casa prima o poi. Ma alle loro condizioni: “Vogliamo un posto fisso”.