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di Andrea Bottega
È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’8 giugno 2016 il Dpcm che, ai sensi della legge di stabilità 2016, definisce gli oneri economici per il rinnovo dei contratti 2016-2018 per gli enti diversi dall’amministrazione statale.
Il decreto stabilisce, sulla scorta di quanto stanziato dalla legge di stabilità per il personale delle amministrazioni centrali (300 milioni di euro), che a partire dal 2016, per l’intero triennio 2016-2018, le amministrazioni, istituzioni e gli enti interessati mettano a bilancio risorse economiche pari allo 0,4% del monte salari rilevato dai dati più recenti del conto annuale al netto della spesa per l’indennità di vacanza contrattuale.
Nella sostanza viene dato qualcosina in più e viene confermata la vacanza contrattuale che già il personale percepisce dal luglio 2010 in quanto già finanziata e già considerata nello scenario tendenziale di saldo della finanza pubblica a legislazione vigente. Nonostante sia percepita dal 2010 tale vacanza contrattuale deve però considerarsi quale vacanza contrattuale del triennio 2016-2017.
Ma in quanto consisterà mediamente l’aumento stipendiale per dipendente? Lo 0,4% del monte salari equivale a circa 150 euro lordi medi a dipendente (comparto e dirigenza). La precisazione contenuta nel testo, “per l’intero triennio 2016-2018”, indica che tale importo sarà fissato così per tutti e tre gli anni e quindi si tratterebbe di un aumento medio di 11 euro lordi al mese fino al 2018.
Pare ovvio che l’ipotesi di un tale aumento contrattuale chiude le porte a ogni margine di trattativa in quanto ogni modifica chiesta dalla parte datoriale non trova un corrispettivo accoglimento di modifica del trattamento economico. Che cosa si potrebbe contrattare se la controparte si presenta al tavolo con solo richieste ma nessuna disponibilità a concedere qualcosa in cambio? Che senso ha firmare un contratto dove si recepiscono solo gli interessi del datore di lavoro?.
Nessun margine di contrattazione quindi per un contratto a costo zero. E la situazione non migliora se pensiamo alle recenti dichiarazioni del ministro della Funzione Pubblica che individua nei redditi inferiori a 26 mila euro, quelli a cui indirizzare le risorse stanziate.
Sarebbe semplicemente una partita di giro per riprendere il bonus di 80 euro a chi fino ad oggi aveva goduto di questa agevolazione. L’aumento contrattuale con queste premesse lascerebbe fuori proprio i lavoratori in categoria D, cioè tutti i professionisti dell’area sanitaria e tecnica che sono la maggioranza qualificata del comparto. Anche le competenze specialistiche che vogliono le regioni sarebbero maggiore responsabilità e studio senza un euro in più.
Dopo 6 anni di blocco contrattuale e 11 miliardi di euro risparmiati sulla pelle dei lavoratori pubblici, apprendiamo dal report mensile della Banca d’Italia che il debito pubblico ha registrato un nuovo record di 2.241,8 miliardi di euro. A cosa sono serviti e a cosa servono i sacrifici dei lavoratori pubblici? A dare la disponibilità di denaro per i bonus governativi come i 300 milioni per chi compie 18 anni nel 2016?
Pur essendo già stato emanato l’atto di indirizzo per il comparto sanità e poiché il governo ha dichiarato di essere pronto ad aprire i tavoli contrattuali, tenuto conto delle risorse stanziate, riteniamo che sia utile aspettare l’evolvere della situazione politica che vede nel voto referendario di novembre un appuntamento importante. Con questi presupposti sarebbe difficile aprire la trattativa ma potrebbero esserci sorprese dopo l’estate e non è escluso che in autunno ci si trovi con un nuovo governo e con una nuova politica che possa riservare qualcosa di buono per i lavoratori pubblici nella legge di stabilità del 2017.
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