MILANO
26 ottobre 201617
MILANO, 26 OTT – Sono state tutte condannate a un anno di carcere, pena sospesa e non menzione, le sette infermiere finite sotto processo con l’accusa di omicidio colposo per la morte della piccola Rachel Odiase, la bimba nigeriana di soli 13 mesi morta nel marzo 2010, a causa di un grave stato di disidratazione all’ospedale Uboldo di Cernusco sul Naviglio, alle porte di Milano.
Lo ha deciso il giudice della quinta sezione del Tribunale di Milano che ha condannato le infermiere e l’ospedale, in qualità di responsabile civile, a risarcire i danni ai genitori della piccina in sede civile. Per la vicenda due medici sono stati condannati in via definitiva e hanno versato alla famiglia della piccolina 400 mila euro.
Mentre i difensori delle imputate, gli avvocati Irene Vinci ed Elena Fachechi, annunciano ricorso in appello, Fabiola Paccagni, legale della famiglia di Rachel ha detto di essere “soddisfatta della sentenza poichè in linea con quanto da noi prospettato fin dall’inizio della vicenda”.
La sentenza nei confronti delle sette infermiere è avvenuta a più di sei anni di distanza da quella tragedia, in quanto la loro posizione è stata vagliata dalla Procura dopo la trasmissione dei verbali delle loro deposizioni in aula da parte del Tribunale al termine del processo di primo grado nei confronti dell’unico medico che aveva scelto il rito ordinario.
Verbali che hanno portato all’apertura di un’indagine bis che oggi è approdata al giudizio di primo grado. L’avvocato Paccagni ha aggiunto di essere soddisfatta in quanto la sentenza è arrivata “ben prima della prescrizione del reato” che cadrà nel settembre 2017. Sicuramente avvieremo la causa civile sperando che l’ospedale rifonda il danno. Anche se Rachel non ritornerà mai più il denaro del risarcimento servirà per la crescita dei suoi 4 fratelli e sorelle”.
Le due avvocatesse delle infermiere invece hanno annunciato che, dopo il deposito delle moTivazioni (il giudice si è preso 90 giorni), impugneranno la sentenza “perchè riteniamo che le nostre assistite siano destinatarie di un provvedimento eccessivamente grave in quanto, come abbiamo prospettato in aula, riteniamo che le responsabilità non sono da imputare al personale infermieristico”.
La vicenda risale al 3 marzo 2010. Era da poco passata la mezzanotte, quando la piccola, con una gastroenterite acuta, venne trasportata in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale di Cernusco. Con lei c’era la madre Linda, poi raggiunta dal padre, Tommy, operaio allora disoccupato da poche settimane, e con la tessera sanitaria della figlia scaduta.
Il personale medico, dopo una prima visita, avrebbe però sottovalutato le condizioni della bimba, negandole il ricovero nel reparto di pediatria. Circa un’ora dopo, visto che Rachel stava sempre peggio, il padre chiese una nuova visita, ma anche per via di quel problema burocratico legato alla tessera sanitaria non rinnovata, come lui stesso aveva denunciato, non ottenne alcun risultato. Alla fine, poco dopo le due, grazie all’intervento dei carabinieri, la bambina venne ricoverata.
Durante tutta la notte la piccina sarebbe stata praticamente ‘abbandonata’, come aveva raccontato la madre. Solo alle 8 del mattino del 4 marzo, un infermiere eseguì un prelievo del sangue. Per la mancanza di cure adeguate, come poi stabilì la Procura – che però ha escluso che l’irregolarità della tessera sanitaria sia stata una concausa della morte – per la bimba non ci fu più nulla da fare: all’alba del 5 marzo, morì. Secondo l’accusa, anche le infermiere che ebbero a che fare con la piccina, non le avrebbero offerto le cure adeguate.