da Quotidianosanita.it
21 NOV – Gentile Direttore,
sull’onda delle scelte dell’Oxford Dictionary va di moda la “postverità”, termine che vuol rappresentare il mondo d’oggi “in cui i fatti obbiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali”. Da molto tempo ho l’impressione che anche le organizzazioni mediche non sfuggano a questa condizione. E allora succede che si dissipino energie per difendere strategie e atteggiamenti fuori del mondo ma che ancora ci narrano la storia del bel tempo che fu, di un passato che, forse, non è mai esistito.
Patognomonica è la questione del rapporto con gli altri professionisti della sanità, in particolare con gli infermieri. La collaborazione dei medici alla stesura degli indirizzi operativi per il 118 ha provocato grandi contrasti e chi scrive ha dovuto, su segnalazione di un altro Ordine, spiegare all’autorità giudiziaria la liceità clinica e la legittimità dei protocolli in uso dagli infermieri del 118 che, in alcune situazioni di emergenza, possono in autonomia svolgere prestazioni di immediato soccorso su cui sono stati precedentemente formati e mediante algoritmi predisposti e condivisi tra medici e infermieri e approvati dalle autorità sanitarie.
In Toscana ciò avviene da oltre quindici anni, sempre con il medico in centrale, mediante mezzi medici e infermieristici logisticamente ben disposti e, in ogni caso, sotto la supervisione del medico. Nella nostra Regione il 118 svolge circa 500.000 interventi annui e non abbiamo mai avuto problemi con gli utenti. Tuttavia non ha rilievo il confronto tra le diverse Regioni; invece è importante riflettere sulla crisi della professione, così come per lo più è vissuta.
Per inciso, ben diversa è la questione sollevata dall’Ordine di Perugia sulle unità di degenza infermieristica, che possono aver senso solo dopo aver definito a livello nazionale la tassonomia dei ricoveri in post acuzie, dai più complessi fino alle residenze per anziani soli che non hanno niente di sanitario se non la probabile fragilità degli ospiti. In tal senso si è ben espresso il tribunale umbro.
Invece le opposizioni all’autonoma responsabilità degli infermieri si fondano anche sulle norme del codice deontologico dei medici. Ma il codice detta norme per i medici e non può in alcun modo definire le competenze altrui. Il codice indica come il medico deve svolgere una prestazione di sua competenza ma non potrà mai escludere che la stessa prestazione non sia anche di competenza di altri. Si sostiene che il medico, come non può partecipare a torture anche se ordinate dallo Stato, così non può collaborare con gli infermieri per gli atti che l’Ordine considera esclusivi ovverossia protetti. Siccome la questione prima o poi arriverà in Parlamento se non in Cassazione non resta che attendere.
Ma il problema più rilevante è un altro. Al di là del See and Treat, del 118, del nursing domiciliare, e di tutte le evenienze che riguardano gli infermieri, non vi è dubbio che è in corso una grave crisi del professionalismo il quale, trionfante fino a metà del secolo scorso, è ora in gravi difficoltà. Su questa crisi e sulle sue cause bisogna riflettere, altrimenti si rischia di proseguire sull’onda delle reazioni emotive che non portano a nulla. Il mondo va per conto suo e non recrimina mai.
I medici hanno sempre in mente le classiche libere professioni, poche, intellettuali, esclusive. Il mondo oggi ha professionalizzato quasi tutto e esige formazione specifica e competenze separate per attività finora del tutto generiche. Il vecchio maresciallo in pensione che gestiva il condominio ha ceduto il posto a un professionista agguerrito che rivendica ruolo e targa sulla porta. L’estrema burocratizzazione di ogni quotidianità finisce col mettere sullo stesso piano, stante l’equiparazione dei titoli attraverso l’istituzione di decine di nuove lauree, miriadi di specificità.
Tutto ciò è immensamente ampliato dai progressi incredibili della tecnica. Non passa giorno che non entri in uso una nuova sofisticata (e costosa) tecnologia. Chi ne apprende l’uso ne fa subito una professione. Quante specialità o anche lauree sono nate così? La confusione è enorme e aumenta perché le vecchie professioni liberali sono considerate imprese e quindi, ironia della sorte, l’esclusività del titolo è costretta a convivere con la libertà assoluta di pubblicità e la licenza tariffaria. Si comprende come il Parlamento al massimo tenti di ammodernare il funzionamento degli Ordini ma non entri nel merito della legislazione delle libere professioni. L’argomento è troppo difficile per la politica.
Una cosa però è chiara. Il “capitale umano” non potrà più coincidere con la preparazione universitaria applicata per tutta la vita lavorativa. Le competenze via via acquisite saranno sempre vincenti e il medico, se vuol essere il leader della sanità, deve saper esercitare il pensiero critico, mostrare disponibilità all’innovazione e grandi capacità comunicative e di collaborazione. In quest’ottica possiamo tentare strade per il futuro della professione. Allora torniamo ai problemi degli infermieri (che sono gli stessi che questi hanno con gli OS!).
O impariamo a sederci intorno a un tavolo per discutere caso per caso chi fa che cosa e come ne è responsabile, oppure la via della definizione per legge dell’atto medico porterà soltanto a limitare il campo di attività dei medici. Anche in questo caso i muri non funzionano, funzionano i ponti.
Antonio Panti
Presidente Omceo Firenze