Francesco Baldi, dal 23/07/2016
Sono in vigore novità rilevanti nella disciplina dei rapporti di lavoro di soggetti coinvolti in un cambio di appalto.
La Commissione Europea ha avviato una procedura di pre-infrazione nei confronti dell’Italia poiché ha ritenuto che l’art. 29, comma 3, D.lgs. n. 276/03 fosse in contrasto con la direttiva 2001/23/CE che disciplina la fattispecie del trasferimento di azienda in ambito comunitario.
Come è noto, nell’ipotesi di cessazione di un appalto di servizi con subentro di un nuovo appaltatore, il vecchio testo dell’art. 29 cit. prevedeva che qualora quest’ultimo fosse obbligato (in forza di legge, contratto collettivo o clausola inserita nel contratto di appalto) ad acquisire il personale già impiegato nell’appalto, non trovava diretta applicazione l’art. 2112 c.c., che prevede la continuità dei rapporti di lavoro e l’applicazione del trattamento economico e normativo previsto dai contrati collettivi applicati dal cedente, salvo che vengano sostituiti dal cessionario con altri dello stesso livello.
La conseguenza era che la riassunzione dei lavoratori poteva avvenire, ad esempio, con azzeramento dell’anzianità di servizio maturata ovvero con retribuzione ed inquadramento differente rispetto a quello ricevuto nel precedente rapporto. La ratio della norma, quindi, era quella di tutelare l’azienda subentrante nell’appalto e non costringerla, ove tenuta riassumere i lavoratori, ad applicare il medesimo trattamento.
Anche prima del recente intervento legislativo, tuttavia, una parte della giurisprudenza (allo scopo di attenuare, conformemente agli indirizzi già espressi in ambito europeo, la rigidità dell’art. 29 della legge Biagi) aveva rilevato che la disciplina di cui all’art. 2112 c.c. avrebbe dovuto trovare applicazione anche nel caso di successione nel medesimo appalto, a condizione che si fosse realizzato un passaggio di beni di non trascurabile entità tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica attività di impresa, e senza che fosse requisito imprescindibile un formale atto negoziale tra due imprese (in tal senso Cass. Sent. n.3301/2012; Cass. n. 493/2005).
In altre parole, la giurisprudenza affermava che qualora l’avvicendamento nell’appalto fosse accompagnato dal passaggio di una certa entità di beni, funzionali allo svolgimento di una specifica attività di impresa, si realizzava una fattispecie del tutto assimilabile al trasferimento di azienda, anche se formalmente tra vecchio e nuovo appaltatore non erano intercorsi rapporti di natura contrattuale.
Pertanto, la disciplina dell’art. 2112 c.c., era estesa anche a tale ipotesi. La recente riforma (art. 30 legge 122/2016 – legge europea 2016) modifica il testo dell’art. 29 ed introduce un’importante specificazione in ordine all’applicazione della suddetta norma di tutela.
Il nuovo teso dell’art. 29 prevede ora che “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità d’impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”
Con tale disposizione il nostro legislatore, tenendo ferma la distinzione tra le due fattispecie, ha sostanzialmente ribadito che se la successione in un contratto di appalto configura un’ipotesi equiparabile al trasferimento di azienda, deve essere applicata la disciplina di cui all’art. 2112 c.c. ai lavoratori coinvolti. Orbene (al di là dell’ipotesi in cui l’impresa subentrante non abbia una propria struttura organizzativa per svolgere il servizio oggetto dell’appalto) l’elemento distintivo che dovrebbe garantire la continuità dei rapporti di lavoro è rappresentato proprio dall’assenza di elementi che autorizzino ad affermare che il nuovo appaltatore svolge un’attività, da un punto di vista concreto, distinguibile e riconoscibile rispetto a quella del precedente. L’art. 2112 c.c., comma 5, prescrive esplicitamente il perdurare dell’identità della medesima attività a seguito del trasferimento affinché sia configurabile un trasferimento di azienda.
Certo è che i dubbi interpretativi che genera tale disposizione sono ancora molti.
Non è in alcun modo chiaro quali sino detti “elementi” idonei a determinare una discontinuità rispetto alla precedente attività di impresa. Ci si domanda, in particolare, se sia sufficiente che il nuovo appaltatore svolga attività ulteriori, ovvero un servizio più esteso e diversificato rispetto al precedente, per affermare che ci troviamo in presenza di una “specifica identità di impresa”.
Ebbene, se da lato non appare erroneo affermare che la prescritta diversità potrebbe anche fondarsi su una differente organizzazione produttiva, dall’altro è pur vero che, se l’obbiettivo della riforma è quello di reprimere situazioni di abuso e favorire la continuità dei rapporti di lavoro anche ad ipotesi “limite”, dovrebbe ritenersi che nuovo testo dell’art. 29 della D.lgs. 276/2003 non si presta a interpretazioni estensive. Per cui, in base a tale ultima affermazione, la differente organizzazione produttiva dovrebbe essere qualificata da elementi propri ed esclusivi del nuovo appaltatore.
Naturalmente, stante la genericità di tale disposizione, fondamentale sarà il contributo dell’interpretazione giurisprudenziale e della prassi applicativa. In ogni caso, occorre ribadire che anche a seguito della riforma l’assunzione dei lavoratori da parte del nuovo appaltatore potrà essere pretesa solo in forza di una norma di legge (es. recentemente in materia di call center -art. 1, comma 10, L. 11/2016) di una clausola contenuta nel contratto di appalto ovvero di clausole di salvaguardia sociale inserite nei contratti collettivi applicati dalle parti.
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