Il significato di demansionamento non può essere oggetto di speculazioni sofistiche di natura deontologica perché rientra nei fenomeni patologici delle condotte antigiuridiche e, quindi, è materia giuslavoristica più che ordinistica o filosofica.
La speculazione deontologica viene attuata dai sofisti dell’infermieristica per razionalizzare e spiegare la fisiologia del demansionamento ed ha, quindi, una funzione negazionista di un fenomeno illecito, contrario alla legge e devastante per una professione che si definisce intellettuale, finendo col distruggere anche le basi legislative che fondano l’esistenza stessa dei Collegi IPASVI.
Attribuendo uno scopo nobile al demansionamento, come quello paternalistico e missionario, questi filosofi dell’ovvio mutano l’accezione giuridica del demansionamento in un diverso significato etico che distrae l’oggetto dello studio verso una tolleranza mascherata da permissivismo, dedizione ippocratica e servilismo missionario alla “volemose bene”, estranei alla natura professionale della prestazione intellettuale.
Non per nulla questi sofisti sono scappati dalle corsie o si sono rifugiati in una nuova figura manageriale, lontana dalle effettive prestazioni assistenziali semplici e, dalle loro cattedre privilegiate, insegnano al popolo infermieristico che portare la padella, che loro stessi disprezzano, è l’essenza profonda della professione infermieristica.
Ogni tanto rispondono ad un campanello per lavarsi la coscienza e dimostrare che anche loro, in fondo, non hanno rinunciato alla scopo primario della professione, ma si tratta solo di finzione perché se devono sporcarsi le mani, escono in corridoio per chiamare l’infermiere.
Questi sono gli ipocriti, mascherati da santi, che ci annunciano la loro parola sul demansionamento, che indottrinano i futuri infermieri trasformandoli, di fatto, in portantini, drogandoli di orgoglio professionale e importanza sociale che, nella realtà, non esistono se non nelle loro menti perché questi falsi valori crollano davanti il più piccolo dei dottorini, che da dirigente è capace di comandarli a bacchetta.
Questa è la realtà e questa realtà, ogni giorno che passa, peggiora sempre di più perché il divario che separa gli infermieri sguatteri dagli infermieri comandanti è profondo e quest’ultimi intendono aumentarlo maggiormente per allontanare dalla memoria la puzza del reparto.
Basti vedere come si comporta il dirigente infermieristico verso gli infermieri rispetto al direttore sanitario rispetto ai medici.
Ammantata da unzione divina, è impossibile in molte realtà riuscire a interloquire con la dirigente infermieristica che dagli infermieri interpone diversi strati gerarchici, spesso ridicoli, che riscontriamo solo nel sistema militare.
Diversamente, qualsiasi medico ha accesso al direttore sanitario, perché tra identici professionisti vige la regola della solidarietà professionale, cosa che nel nostro ambito nemmeno è conosciuta.
Con queste semplici e lapidarie premesse, rimandando il lettore interessato alle mie specifiche pubblicazioni in merito, rispondo ancora una volta, e spero l’ultima, ai colleghi sofisti e manipolatori della parola che, sulla scia delle errate costruzioni dottrinali della Federazione IPASVI sul demansionamento (non a caso molti Messia sono consiglieri del Collegio), speculano in termini filosofici e missionari su un tema serio e grave che sta annientando la dignità della nostra professione a la salute di migliaia di infermieri che si sono avvicinati a questa professione con ampia fiducia, spesso ingannevole, per prestare assistenza di qualità e non per spendere la propria vita in una sorta di girone infernale per espiare i propri peccati, come se fare l’infermiere significasse servire fino alla morte i bisogni del paziente e quelli del medico nonché gli interessi del direttore generale e, quindi, quelli del dirigente infermieristico.
Se avessero voluto fare i missionari, questi colleghi avrebbe potuto optare per l’Africa e per l’India, evitando di sperare in un sistema sanitario di migliore qualità, privo di carenze e disorganizzazione, dedito alle cure dei lavoratori e degli utenti.
Si dimentica spesso che un infermiere malato, svilito, deluso, stanco e amareggiato non potrà garantire al paziente un’assistenza di qualità, incoraggiante, ottimista ed efficace.
Si pensa all’infermiere come carne da macello, pedina sacrificabile pur di ottenere un sorriso da parte del paziente.
Non è così: pazienti e infermieri devono essere trattati insieme con dignità, un sistema sanitario serio, coerente, professionale e di qualità, tiene in considerazione gli operatori insieme ai pazienti e non arriva al punto di sacrificare i primi per il benessere dei secondi.
Esaurita questa indispensabile premessa, tanto per precisare l’area del pensiero critico-costruttivo entro il quale mi muovo, intendo dissertare sull’istituto del demansionamento, ricordando che questa materia non è stata creata dalla federazione IPASVI né dai cultori pseudoscienziati che taluni sindacati infermieristici ci propinano nelle loro riviste, come se noi, che da 30 anni cambiamo pannoloni, dovessimo imparare da questi signorotti per sapere cosa significa correre per tutto il reparto cercando di non impazzire per il continuo stridulo dei campanelli.
Quindi il significato che dobbiamo necessariamente dare al demansionamento non può che essere quello fornitoci dai loro stessi creatori cioè gli operatori del diritto: i magistrati e gli avvocati che hanno teorizzato e studiato a lungo sulla materia.
Al di fuori di questa unica accezione, ogni diversa speculazione è irrilevante e fantasiosa (come quelli che rifiutano il termine “demansionamento” in favore della “dequalificazione”, ignorando che i termini sono sinonimi e che loro, semplici infermieri, non possono correggere la terminologia giuridica accreditata presso le più alte magistrature) e pertanto non può e non deve essere considerata, se non nei salotti IPASVI stando comodamente seduti a sorseggiare un drink.
Non c’è bisogno, spero, di spiegare quali mansioni sono ritenute illegittime e perché l’infermiere non debba prestarle, considerato che dal 1994, quando per la prima volta ne parlai apertamente e ne pagai le conseguenze sulla mia pelle grazie all’interesse pervicace dell’allora presidente del collegio di Roma, la comunità infermieristica ne ha preso coscienza e oggi non è più ritenuta un pazzia, come lo fu invece all’epoca.
PREFAZIONE
Finalmente affrontiamo un problema che gli infermieri lamentano da sempre ma che non hanno mai avuto il coraggio di gridare ad alta voce per non offendere il senso dell’essere infermieri, per paura di essere accusati e tacciati di aver sbagliato mestiere, per paura di diventare una delusione per gli altri: il demansionamento o dequalificazione.
Per demansionamento si intende lo svolgimento, di fatto, in maniera continua, autonoma e prevalente, di mansioni assegnate ai profili inferiori.
Ho scritto mansioni, si proprio mansioni; e con questo sfatiamo il primo assioma dei salotti infermieristici e cioè: non è vero che con l’abrogazione del mansionario le mansioni non esistono più.
A parte che il mansionario non è stato completamente abrogato, è ancora vigente l’art. 6 che disciplina le mansioni dell’infermiere generico (ed è per questo che giustamente la giurisprudenza continua a utilizzare il termine “infermiere professionale”), ma, soprattutto, le uniche due norme di tutto il nostro ordinamento giuridico che parlano delle attività lavorative, definiscono il contenuto della prestazione con la parola “mansioni” e non “competenze” o “funzioni” come invece ci propinano i mestieranti del diritto.
L’art. 2103 C.C. e l’art. 52 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 disciplinano le mansioni, ed è di mansioni che si parlerà ed è di mansioni che la giurisprudenza italiana (cioè i giudici) vogliono sentir parlare.
La comparazione legale del contenuto e del valore professionale, si misura in mansioni e non in funzioni o competenze (non dovete credere a tutto quello che leggete nelle riviste infermieristiche scritte perlopiù da infermieri che non hanno nemmeno un minimo di cultura e che, spesso, scopiazzano da altri come nel caso del presidente dell’Associazione Infermieri Legali Forensi, Eugenio Cortigiano, che si appropriò di un mio articolo dopo 13 anni dalla sua pubblicazione).
Se non copiano dai bravi non sanno scrivere.
Sfatiamo anche la seconda regoletta: non è vero che l’infermiere professionale debba essere denominato semplicemente “infermiere”.
Se esiste ancora l’infermiere generico è naturale che debba esserci l’infermiere professionale, altrimenti si fa confusione, ed infatti è proprio quello che è avvenuto con la sentenza della S.C. (Suprema Corte di Cassazione), VI Penale, 29 dicembre 2006 n. 39486.
I giudici hanno condannato per rifiuto di atti d’ufficio un’infermiera che si rifiutò di pulire un paziente.
Immediatamente i sindacati, la federazione IP.AS.VI., i Collegi, perlopiù quelli contenti di smentirmi, scrissero che gli infermieri dovevano pulire i malati altrimenti sarebbero stati arrestati.
Io fui tormentato da molti infermieri: hai visto che hai torto, hai visto che si va in galera se ti diamo ragione?
Invece la sentenza riguardava un’infermiera generica, confermando che l’infermiere professionale non deve pulire il malato.
Ergo, questi soggetti non hanno neppure voglia di leggere integralmente una sentenza (o forse non le capiscono)!
Il fenomeno del demansionamento è, secondo la giurisprudenza (permultis: S.C., SS.UU., 11 novembre 2008 n. 26972) la violazione peggiore, la cattiveria più grande che il datore possa fare al proprio dipendente e, per questo, va sanzionata con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento.
In ambito infermieristico, però, il demansionamento è atipico perché non è cagionato dal datore, ma solo perpetrato e sfruttato.
L’infermiere nasce già demansionato, è l’università che lo prepara perché il datore lo possa sfruttare come sguattero per “mandare avanti il reparto”.
I corsi universitari sono ridicoli: rilasciano una laurea a chi pulisce le padelle.
Solo per questo tutti gli italiani capaci di pulire una padella, dovrebbero ricevere una laurea ad honorem in infermieristica.
Questo indottrinamento che rende appetibili gli infermieri a chi li voglia sfruttare, si rafforza sul posto di lavoro perché i coordinatori e i dirigenti infermieristici, spesso sostenuti dai collegi e dalla federazione, spingono in tal senso, proteggendo gli ausiliari specializzati, gli O.T.A. e gli O.S.S. dall’assistere i malati, anzi, dal toccarli proprio.
Questo sistema porta i datori di lavoro a richiedere, indifferentemente, infermieri e badanti e spiega la perdita di eterostima sociale a cui stiamo andando incontro con gravi ripercussioni anche retributive sulla nostra traviata categoria.
Questi rasentano il ridicolo se non fosse che hanno anche cagionato seri ed irreparabili danni al servizio sanitario nazionale, permettendo ai sindacati collusi, di proteggere la loro clientela, dirottando gli ausiliari negli uffici (e garantirgli la carriera) a detrimento della qualità assistenziale e della professionalità infermieristica.
Gli infermieri, anche quelli laureati, svolgono marginalmente e affrettatamente le proprie mansioni, ma l’attività principale che occupano riguarda essenzialmente quella ausiliaria tanto da svolgerla in maniera prevalente e pedissequa, sottraendo prezioso tempo alle attività cliniche-infermieristiche, e che riguardato precipuamente mansioni igienico-domestico-alberghiere e precisamente: rispondere ai campanelli di richiesta domestica e alberghiera; soddisfare richieste che attengono alle necessità quotidiane dei pazienti; alzare e abbassare le tapparelle; aprire e chiudere le finestre; alzare e abbassare lo schienale del letto; aprire una bottiglia; riempire un bicchiere d’acqua; porgere il telefonino, gli occhiali, la dentiera, una bottiglietta, ecc.; accendere e spegnere la televisione; prendere le lenzuola; chiudere la porta; chiamare un parente al telefono; prendere dall’armadio vestiti, scarpe, calzini; vestire e movimentare il paziente alzandolo di peso nel letto; sollevare il paziente dal letto/carrozzina/comoda e viceversa il più delle volte da solo per accompagnarlo al bagno; usare le padelle e i pappagalli, svuotarli e pulirli; pulire le bacinelle ed ogni presidio usato dal medico e dal paziente; imboccare i pazienti non autosufficienti; riassettare il letto e cambiare la biancheria; smaltire le sacche di urina; sostituire i pannoloni, effettuare le cure igieniche, vestire il paziente; barellamento dei pazienti a mezzo di carrozzina, barella e letto per il trasportarli verso altri servizi; preparare, lavare ed asciugare il materiale da sterilizzare; pulire, controllare e rifornire i carrelli e gli armadi di servizio; smaltire il materiale sporco usato per l’assistenza; spostare tra le stanze materassi, letti interi e comodini.
Gli infermieri sono impegnati, senza sosta, a garantire ai pazienti l’assistenza diretta svolgendo tutte le mansioni ausiliarie e per questo non praticano in maniera soddisfacente e intellettuale la propria professione e quindi non possono mai seguire le visite mediche, aggiornarsi sull’evoluzione terapeutica e patologica dei malati, svolgere ricerca infermieristica per migliorare l’assistenza e la compliance dei pazienti (non conoscono le malattie dei propri pazienti), non si aggiornano sul fronte dei processi di nursing, non propongono miglioramenti e sperimentano innovazioni assistenziali di natura tecnico-infermieristica, non applicano i metodi assistenziali personalizzati secondo le patologie in essere, non svolgono attività informativa igienica e profilattica per esempio relativamente alle malattie autoimmuni che si acuiscono in presenza di determinati regimi alimentari o di stress, non forniscono ai pazienti le informazioni relative alle attività assistenziali che svolgono (es. finalità di un farmaco, effetti collaterali, gestione autonoma del farmaco, scopo dell’autotrasfusione, contenuto delle attività diagnostiche, ecc.).
Tutte queste carenze professionali, oramai perse per mancata pratica ed esperienza e, soprattutto, per radicamento da persistenza delle attività ausiliarie su quelle propriamente infermieristiche, sono imputabili al disinteresse dell’amministrazione datoriale che assegna il personale ausiliario nel reparto, costringendo, di fatto, gli infermieri a sopperire a tali carenze ed a svolgere perlopiù attività operaia e manovalanza, sottoponendoli alle vessazioni dei familiari dei malati che, giustamente, pretendono costante assistenza igienica, domestica e alberghiera.
E l’IP.AS.VI.? L’IP.AS.VI. sta a guardare, tanto le loro poltrone sono protette da ogni ingerenza.
Il prezioso tempo che gli infermieri avrebbero potuto investire nelle mansioni infermieristiche è stato disperso con gravi pregiudizi alla salute e alla personalità morale ed esistenziale fin dall’inizio del rapporto di lavoro, perché sono costretti a privilegiare le mansioni ausiliarie anziché le proprie, quest’ultime residuandole rispetto alle prime, perché devono soddisfare i bisogni non procrastinabili richiesti dai pazienti e che attengono, appunto, le già precisate attività igienico-domestico-alberghiere.
Spesso la loro presenza è pretesa dai parenti dei pazienti anche dietro minacce, ogni volta che tardano a rispondere al campanello o quando rappresentano al parente gli impedimenti urgenti che non gli permettono di accudire prontamente il malato.
Nei servizi ove lavorano gli infermieri, non è mai stato assegnato il personale ausiliario per svolgere le mansioni assistenziali dirette ed anzi, la struttura sanitaria non solo conosce queste carenze, ma addirittura ne è direttamente responsabile perché in più occasione chiede espressamente sacrifici esclusivamente al personale infermieristico.
Il paradosso è che i sacrifici dell’infermiere vengono richiesti, spesso, dai medici quando, questi, sono i primi che sollevano un vespaio al solo odore di demansionamento e se ne stanno chiusi nelle loro stanze estraneandosi dal paziente, magari distesi a sognare comodamente sui loro letti.
Interessante la contestazione scritta contro alcuni infermieri dal direttore sanitario di un ente pubblico pugliese, datata 07 luglio 2008: “ingiustificabili ritardi nel rispondere alle chiamate dei degenti e nella attuazione di trattamenti sia terapeutici che di tenuta igienico-sanitaria (cambio lenzuola; rinnovo pannoloni, ecc) … ad assicurare una costante ed efficace azione assistenziale infermieristica in ogni turno e sia nei giorni feriali che festivi … avvio di severe procedure disciplinari poiché incidenti sull’immagine dell’Ente e sulla umanizzazione dei rapporti tra utenti e operatori sanitari”.
In altre occasioni sono stati richiesti agli infermieri di: ritagliare i cartoncini dove scrivere i permessi per accedere con le auto, infilare i calzini ai piedi dei pazienti, fornire i bagni di carta igienica e carta per asciugamano, riassettare i letti, trasportare materiale, cambiare le lenzuola, raccogliere la sporcizia dal pavimento, portare bevande e vivande ai pazienti, fare le fotocopie, vigilare alle porte di ingresso.
A Bari la direzione sanitaria ha provveduto ad assegnare agli infermieri ulteriori mansioni improprie relative alla distribuzione del vitto, stabilendo, addirittura, che gli infermieri allontanassero “eventuali rifiuti, carrelli di medicazione, pappagalli e padelle”.
Altri enti hanno riconosciuto la professionalità degli infermieri ma al contempo hanno preteso il demansionamento: “intraprendendo tutte le opportune iniziative per l’attivazione delle procedure per l’ammissione in ruolo di un congruo numero di O.S.S. … A tal riguardo l’alta etica che contraddistingue la professionalità degli interessati (cioè solo degli infermieri) deve sopperire a compiti di supporto non caratteristici delle professionalità suddette”.
In poche parole la direzione sanitaria, con dichiarazione confessoria, chiedeva agli infermieri di sacrificarsi sopperendo alle carenze del personale di supporto e ammetteva che dette mansioni erano estranee alla professionalità degli infermieri.
Altre volte, ringraziando il personale infermieristico per quanto prodigava, hanno ammesso: “Le significo che questa amministrazione ha già definito apposita procedura per il reclutamento attraverso l’istituto della mobilità di n. 10 unità O.S.S. nell’ambito del fabbisogno di personale a cui correntemente si darà seguito” .
Ovviamente queste promesse non sono mai state mantenute e i sindacati si sono girati dall’altra parte!
Tutte queste mansioni svolte dagli infermieri non appartengono assolutamente al loro profilo professionale, ma attengono alla categoria ausiliaria che sarà meglio specificata appresso; gli infermieri sono vittime del demansionamento che aggravatosi gradualmente può cagionare seri danni soprattutto alla salute perché non potrebbero svolgere appieno la professione infermieristica nella sua completezza tecnica, intellettuale, scientifica ed evolutiva, come, appunto, sono stati preparati.
Difatti la scienza infermieristica non si esaurisce nelle attività assistenziali concertate con i medici dirette alla diagnosi ed alla cura delle malattie, ma impegna altre risorse che tengono in rilievo l’approfondimento e l’analisi delle problematiche assistenziali, proponendo progetti di ricerca e studi sulla metodologia scientifica del conoscere e del saper applicare strumenti innovativi e tecniche d’avanguardia mirate a raggiungere livelli qualitativi ottimali e tendenti al miglioramento dell’apporto infermieristico nel mantenimento della salute del singolo e della collettività.
L’assidua ripetizione di mansioni meramente esecutive ed elementari fossilizzano la personalità degli infermieri, sopprimendone gli aspetti entusiasmanti della professione infermieristica e ne degradano la professionalità, intesa come capacità di saper svolgere con diligente preparazione la professione di infermiere.
Il depauperamento delle attitudini tecniche e del bagaglio professionale precedentemente acquisiti, hanno teso a minimizzare sempre più profondamente la responsabilità e le capacità professionali degli infermieri fino a privarli di senso.
Impedire lo sviluppo professionale dei lavoratori annulla ogni prospettiva di sviluppo, crescita e ambizione, svilendone l’autostima e l’eterostima, fino a vanificare gli enormi sacrifici su cui hanno investito pur di raggiungere migliori soddisfazioni di carriera e ambizioni professionali oramai svanite.
Il sistema così delineato, vi fa comprendere come sia difficile se non impossibile scardinare questa sorta di connubio tra università e servizi sanitari e spiega anche perché ci sono voluti 22 anni prima che io scrivessi un libro tratto dal ricorso pilota presentato al tribunale di Bari contro un caso di demansionamento infermieristico nel quale è stato chiesto un risarcimento omnia di 128mila euro.
Non è una guerra contro gli ospedali, è una guerra contro i rappresentanti sindacali, istituzionali e l’elitè culturale della categoria infermieristica.
E’ una guerra che vinceremo perché il diritto è dalla nostra parte e oramai non abbiamo più nulla da perdere: come abbiamo toccato il fondo ora che l’infermiere ha conquistato la laurea, la dirigenza, l’autonomia, non l’avevamo mai toccato neppure quando vigeva il mansionario e ci comandava bacchetta il medico.
Questo fallimento è la dimostrazione che la nostra categoria non ha dirigenti capaci e che è profondamente immatura e incompetente.
Mi pare di rivivere l’epoca di Florence Nightingale che nel suo diario scrive: “Quando chiesi a mio padre se potevo fare la volontaria in ospedale, mi rispose con un secco No! Mia madre mi trattò come se volessi darmi alla prostituzione e mia sorella svenne, ebbe addirittura un attacco isterico … Fu una reazione giustificabile … nel 1860 le infermiere esistevano, ma erano in realtà sguattere”.
Non siamo lontani dal 1860 se consideriamo che a Roma, nel 2015, un infermiere laureato è stato sospeso due giorni senza stipendio perché si è rifiutato di lavare sotto la doccia una carrozzina sporca; non un malato, una carrozzina e il Collegio non ha mosso un dito per difenderlo.
Come ancora recentemente ribadito dalla Corte Suprema di Cassazione, è indubbio che l’assegnazione a mansioni inferiori rappresenti fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale.
Ed infatti, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali.
Ed inoltre, il demansionamento è potenzialmente idoneo a pregiudicare beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qualvolta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti: particolare rilievo assumendo, a questo proposito, la dignità personale del lavoratore che costituisce diritto inviolabile a norma degli articoli 2, 4 e 32 della Costituzione.
Sicché, la lesione di tale diritto, rappresentata dai pregiudizi alla professionalità da dequalificazione che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’azienda, ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso (S.C., Lav., 12 giugno 2015 n. 12253).
Tuttavia, chiarita l’astratta potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si deve precisare che la produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale, non derivando automaticamente dall’inadempimento datoriale l’esistenza di un danno solo in ragione della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo: e pertanto esso non è ravvisabile in re ipsa, ma esige una specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio, non essendo sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore, ex art. 2697 C.C., l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (S.C., SS.UU. 24 marzo 2006 n. 6572; 30 settembre 2009 n. 20980 e 26 gennaio 2015 n. 1327).
Il che non esclude che, ferma la dimostrazione del danno da demansionamento in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, la prova possa avvenire anche per presunzioni, per la quale dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto purché oggetto di specifica allegazione del lavoratore (S.C., Lav., 23 settembre 2016 n. 18717).
La questione così come ho inteso spiegarla, non è frutto della mia mente fantasiosa o malata, ma della mente dei più importanti giuristi di Cassazione e della dottrina che, ripetutamente, ripropongono questa unica interpretazione e soluzione al fenomeno del demansionamento (S.C., Lav., 18 gennaio 2017 n. 1178).
Il nuovo art. 2103 C.C., come modificato dall’art. 3, D.Lgs. n. 81 del 15 giugno 2015 (job act), in verità non muta sostanzialmente la ratio sottesa il principio dello ius variandi ovvero il diritto allo svolgimento delle proprie mansioni rispetto a quanto era stabilito dal precedente 2103 perché introduce delle deroghe già comunque in uso dalla giurisprudenza ed, anzi, secondo la giurisprudenza di merito, si sovrappone, aderendo, ai principi stabiliti nel pubblico impiego.
La parte che regola le mansioni consta di 6 commi (gli altri 3 commi attengono all’istituto delle mansioni superiori e del trasferimento che, in questa sede, non ci interessano) e stabilisce quanto segue:
“1. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”;
“In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”;
“Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”;
“Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi”;
“Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”;
“Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occu-pazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”.
Quindi, applicando il nuovo ius variandi al caso di specie e, precisamente il comma 1, si può affermare, ad litteram leges, che l’infermiere deve svolgere esclusivamente le mansioni previste o al massimo le mansioni superiori di Coordinatore (ovviamente in presenza dei previsti criteri contrattuali) ovvero le mansioni riconducibili al “livello” (categoria contrattuale) e “categoria legale” (stabilite all’art. 2095 C.C.) di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Esaminando i due diversi criteri fissati dal nuovo ius variandi per determinare una diversa collocazione mansionale, se necessitata dal datore di lavoro, rispetto a quella propria dell’Infermiere, si deve necessariamente precisare quanto segue:
il “livello” economico dell’infermiere era stabilito dal D.P.R. 20 maggio 1987 n. 270 che al par. f) dell’art. 117 lo collocava al VI (sesto), appena sotto il livello del caposala che si trovava al settimo (ora coordinatore). Il “livello” contrattuale è stato confermato negli istituti delle indennità negli artt. 44 e 45 del C.C.N.L. Comparto Sanità 01 settembre 1995. Successivamente, il livello contrattuale è stato sostituito dal sistema delle categorie e delle fasce economiche espresse dalla declaratoria delle qualifiche funzionali di cui all’allegato 1 del C.C.N.L. Comparto sanità 20 settembre 2001 che colloca l’infermiere professionale nella categoria D (ex VI livello). Alla categoria dell’infermiere professionale “appartengono i lavoratori che, ricoprono posizioni di lavoro che richiedono, oltre a conoscenze teoriche specialistiche e/o gestionali in relazione ai titoli di studio e professionali conseguiti, autonomia e responsabilità proprie, capacità organizzative, di coordinamento e gestionali caratterizzate da discrezionalità operativa nell’ambito di strutture operative semplici previste dal modello organizzativo aziendale” ;
la categoria legale attiene all’art. 2095 C.C. che distingue i lavoratori in dirigenti, quadri, impiegati e operai. Non volendo disquisire né provare in quale categoria assegnare l’infermiere professionale, per quello che ci interessa, alla luce della declaratoria contrattuale appena esaminata e della normativa che verrà spiegata è impossibile sostenere che l’infermiere professionale possa essere assegnato, ex art. 2103 C.C., alla categoria legale degli operai perché svolge una professione “intellettuale”, come dianzi dimostrato.
Riguardo i successivi commi, non risulta che controparte abbia modificato gli assetti organizzativi aziendali incidendo sulla posizione del lavoratore (repechage) ovvero che sia stato soppresso o mutato il posto in organico o che si siano verificate le condizioni contrattualmente previste per la mutazione mansionale.
In assenza di patti da demansionamento (ex plurimis: Cass., Lav., n. 19930 del 6 ottobre 2015) e delle deroghe individuate dai commi 2-6 del nuovo art. 2103, si deve ritenere che le modifiche mansionali subite dall’infermiere sono illegittime perché poste in violazione del primo comma dello ius variandi.
Ma vi è di più!
In verità, la dissertazione sull’art. 2103 appena esposta, intende rispondere ad esigenze difensive preventive di mero tuziorismo cioè esegetiche perché neppure si applica al caso di specie di diritto pubblico.
All’infermiere viene applicato il C.C.N.L. Comparto Sanità del pubblico impiego, per cui, in questo ambito, l’art. 2103 C.C. si riduce ad una mera funzione normativa generale che, post riforma, come si è precisato in giurisprudenza, collima con quanto disposto dalla lex specialis in tema di rapporto di lavoro in ambito pubblico privatizzato, ovvero con l’art. 52, D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 che così recita: “Disciplina delle mansioni. 1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1, lettera a). L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione. 1-bis. I dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, conservatori e istituti assimilati, sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali. Le progressioni all’interno della stessa area avvengono secondo principi di selettività, in funzione delle qualità culturali e professionali, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito. Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre anni costituisce titolo rilevante ai fini della progressione economica e dell’attribuzione dei posti riservati nei concorsi per l’accesso all’area superiore” (il co. 2 e ss. disciplinano le mansioni superiori e qui non interessa).
Combinando la disciplina contrattuale delle mansioni con quanto previsto per il profilo professionale dell’Infermiere, si può stabilire con certezza che lo svolgimento di mansioni ausiliarie da parte di questo, configura un gravissimo inadempimento contrattuale e un profondo danno alla professione di notevole valore.
Infatti, il D.M. n. 739 del 14 settembre 1994 così stabilisce: “Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere. Art. 1. E’ individuata la figura professionale dell’infermiere con il seguente profilo: l’infermiere è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale è responsabile dell’assistenza generale infermieristica. 2. L’assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l’educazione sanitaria. 3. L’infermiere: a) partecipa all’identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività; b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi; c) pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico; d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche; e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali; f) per l’espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell’opera del personale di supporto; g) svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell’assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale. 4. L’infermiere contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente all’aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca. 5. La formazione infermieristica post-base per la pratica specialistica è intesa a fornire agli infermieri di assistenza generale delle conoscenze cliniche avanzate e delle capacità che permettano loro di fornire specifiche prestazioni infermieristiche nelle seguenti aree: a) sanità pubblica: infermiere di sanità pubblica; b) pediatria: infermiere pediatrico; c) salute mentale-psichiatria: infermiere psichiatrico; d) geriatria: infermiere geriatrico; e) area critica: infermiere di area critica. 6. In relazione a motivate esigenze emergenti dal Servizio sanitario nazionale, potranno essere individuate, con decreto del Ministero della sanità, ulteriori aree richiedenti una formazione complementare specifica. 7. Il percorso formativo viene definito con decreto del Ministero della sanità e si conclude con il rilascio di un attestato di formazione specialistica che costituisce titolo preferenziale per l’esercizio delle funzioni specifiche nelle diverse aree, dopo il superamento di apposite prove valutative. La natura preferenziale del titolo è strettamente legata alla sussistenza di obiettive necessità del servizio e recede in presenza di mutate condizioni di fatto”.
Il D.M. valorizza la professione infermiere:
l’infermiere professionale è responsabile dell’assistenza generale infermieristica. Ciò vuol dire che ricopre un ruolo di primaria importanza nella pianificazione e gestione dell’assistenza che riguarda le attività igienico-domestico-alberghiere, assegnate, in primis, all’infermiere generico ex art. 6 D.P.R. 14 settembre 1974 n. 225 (assistenza diretta) e nelle attività squisitamente infermieristiche professionali (assistenza indiretta) ex art. 1 dello stesso decreto; ovvero garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche e si svolge sul piano preventivo, curativo, palliativo e riabilitativo attraverso le modalità tecnica, relazionale ed educativa;
quella dell’infermiere professionale è una professione che, per essere svolta, necessita di una abilitazione rilasciata dallo Stato a seguito di un percorso di studi universitario, così come previsto dall’art. 100, R.D. 27 luglio 1934 n. 1265 (T.U. leggi sanitarie) che recita: “Nessuno può esercitare la professione di medico-chirurgo, veterinario, farmacista, infermiera professionale, se non abbia conseguito il titolo di abilitazione all’esercizio professionale, a norma delle vigenti disposizioni”;
le principali funzioni che attengono all’infermiere si svolgono agendo sia individualmente per quanto sia di propria diretta competenza, sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari per la programmazione assistenziale (considerato che sul piano pragmatico lo ius variandi non permette la sovrapposizione mansionale) e, ove necessario, cioè quando l’infermiere lo ritiene tale, si avvale dell’opera del personale di supporto (infermiere generico, A.S.S.S., O.T.A. e O.S.S.);
la formazione infermieristica post-base si fonda sulle conoscenze cliniche avanzate e non meramente esecutive e manuali.
In poche parole, sia la declaratoria contrattuale che il decreto ministeriale, descrivono l’infermiere professionale come un operatore di elevata capacità tecnico-scientifica, capace di organizzare e gestire in proprio, con progettualità, l’assistenza generale, spendendosi personalmente per l’esecuzione assistenziale di alto livello il cui ambito rileva sul piano strettamente scientifico, sul fronte diagnostico-terapeutico e nelle diverse discipline della prevenzione e delle cure palliative.
Sul piano assistenziale diretto che attiene, invece, alla cura della persona e al soddisfacimento dei suoi bisogni primari (igiene, cura, alimentazione, riposo, clima, benessere, relazioni, ecc.) la strategia organizzativa è lasciata nella sua fase progettuale e di verifica all’infermiere (per le reazioni ai feedback), mentre l’esecuzione materiale delle mansioni di natura igienico-domestica-alberghiera è rimessa esclusivamente agli operatori di supporto ovvero al personale subalterno all’infermiere professionale.
Nondimeno, la giurisprudenza formatasi sull’art. 2103 è fondamentale per delineare gli ambiti di rilievo che interessano il demansionamento qui lamentato.
L’art. 2103 C.C. è chiaro nello statuire una regola comune a tutti i rapporti di lavoro in modo da limitare il potere datoriale e garantire che il lavoro sia anche una manifestazione libera della personalità e della dignità del lavoratore, così come statuisce la nostra Carta (artt. 2 e 41).
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (Sent. 29 novembre 2008 n. 24293) chiamata a decidere su un caso di mansioni inferiori, ha stabilito che: “Richiamando la consolidata giurisprudenza di questa Corte al riguardo, la modifica delle mansioni di cui all’art. 2103 C.C. non può avvenire in maniera dequalificante ma deve essere mirata al perfezionamento e l’accrescimento del corredo di esperienze, nozioni e perizia acquisite nella fase pregressa del rapporto. Le mansioni inferiori svolte dal ricorrente, sono state ritenute elementari, estranee alle esperienze professionali pregresse, aventi in sé un maggior rischio di fossilizzazione delle capacità della dipendente medesimo (conforme a Cass., Lav., 09 giugno 1997 n. 5162; 22 aprile 1995 n. 4561; 13 novembre 1991 n. 12088; 17 marzo 1986 n. 1826) … ai fini della valutazione della sussistenza di un corretto esercizio dello ius variandi da parte datoriale non è sufficiente verificare se le nuove mansioni siano comprese nel livello contrattuale nel quale è inquadrato il dipendente, essendo necessario verificare altresì l’equivalenza in concreto di tali mansioni con quelle in precedenza assegnate, alla stregua del contenuto, della natura e delle modalità di svolgimento delle stesse, atteso che la suddetta equivalenza presuppone che le nuove mansioni pur se non identiche a quelle in precedenza espletate corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente, ne salvaguardino il livello professionale, non lo danneggino altrimenti, nell’ambito del settore o socialmente, e siano comunque tali da consentire l’utilizzazione del patrimonio di esperienza lavorativa acquisita nella pregressa fase del rapporto; di guisa che sussiste la violazione del disposto di cui all’art. 2103 C.C. qualora le nuove mansioni, pur comprese nel livello – o nella categoria contrattuale – già attribuito al dipendente, comportino una lesione del suo diritto a conservare e migliorare la competenza o la professionalità maturata o pregiudichino quello al suo avanzamento graduale nella gerarchia del settore” (Cass., Lav., n. 8271 del 29 aprile 2004; n. 3772 del 25 febbraio 2004; n. 14443 del 06 novembre 2000; n. 7040/98; Cass. n. 2896/91), anche in ipotesi di pochi mesi di durata.
Le lamentele degli infermieri ridondano anche a beneficio dei pazienti che dovrebbero pretendere ed ottenere una assistenza migliore dove l’infermiere non debba arrabattarsi per tutti i bisogni del paziente e districarsi dalle pompe ad infusione endovenosa ai pannoloni pieni di feci, del restio anche tipologicamente incompatibili fra loro.
La legislazione ha creato due distinti figure: chi pensa alla pompa ad infusione e chi pensa al pannolone; non è possibile pretendere tutte e due le cose dalla medesima persona!
Ne và della dignità del lavoratore ma ancor più della dignità del paziente.
Non vi è dubbio che l’analisi di questa documentazione dimostra che l’infermiere è indaffarato a cambiare pannoloni, somministrare farmaci, svuotare pappagalli, chiamare il medico, fare la doccia al paziente, monitorare i parametri vitali, mettere la padella, intervenire nell’urgenza medica, cambiare la biancheria, mettere le flebo; cioè è indaffarato a confondere il pulito con lo sporco, le attività intellettuali con quelle manovali, come se fosse il factotum dell’ospedale.
Tutto questo crea malumore, illegalità, disservizi e forti disagi.
Obbligare il personale ausiliario a svolgere le proprie mansioni non comporta impegni di spesa per l’amministrazione perché questo personale già viene retribuito per svolgere assistenza diretta, il problema è che nessuno ha interesse a farglielo fare, neppure i sindacati e la Federazione IP.AS.VI. che ci rappresentano.
Considerati questi fatti, si ricordi che: “la professionalità si autoalimenta nell’esercizio costante della professione e nell’aggiornamento insito nella stessa” – Cass., Lav., 7 luglio 2001 n. 9228.
L’amministrazione non deve scherzare con questo problema.
L’art. 45, co. 12, della L. 18 giugno 2009 n. 69, ha introdotto il terzo comma dell’art. 96 C.P.C. prevedendo che il giudice, anche d’ufficio, possa condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata nel caso in cui la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (co. 1).
In quest’ultimo caso, il giudice la condanna, su istanza di parte, oltre che alle spese anche al risarcimento dei danni.
Si tratta del damnum iniuria datumi cioè di danni ulteriori rispetto a quelli che attengono il petitum, perché corrispondono alla lesione che riguarda la correttezza processuale e, quindi, un ulteriore bene di rango costituzionale tutelabile dall’art. 111 Cost..
La dottrina sul punto afferma: “La riforma ha introdotto nel nostro codice l’istituto dei punitive damages per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzione del sistema giustizia. La norma in analisi sanziona quel comportamento illecito della parte, poi risultata soccombente nel giudizio, che dia luogo alla c.d. lite temeraria. Si tratta del comportamento della parte che nonostante sia consapevole dell’infondatezza della sua domanda o eccezione (mala fede), la propone ugualmente, costringendo la controparte a partecipare ad un processo immotivato. Inoltre, viene sanzionata la mancanza di quel minimo di diligenza richiesta per l’acquisizione di tale consapevolezza (culpa levis). Invero, la legge configura in tale comportamento una responsabilità aggravata, ossia una responsabilità che si aggrava in quanto, essendo fondata su un illecito, comporta l’obbligo di risarcire tutti i danni che conseguono all’aver dovuto partecipare ad un processo privo di fondamento alcuno” – Potetti, Novità della L. n. 69 del 2009 in tema di spese di causa e responsabilità aggravata, in Giur. di Merito, 2010, 948-949; Acierno, Graziosi, La riforma del 2009 nel primo grado di cognizione: qualche ritocco o un piccolo scisma?, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2010,155 e segg.; De Marzo, Le spese giudiziali e le riparazioni nella riforma del processo civile, in Foro It., 2009, V, 399; Maccario, cit., 2245-2246; Ansanelli, voce Abuso del processo, in Digesto Civ., 2007, III, 7; Comoglio, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. Dir. Proc., 2008, 347; Porreca, La riforma dell’art. 96 c.p.c. e la disciplina delle spese processuali nella l. n. 69 del 2009, in Giur. di Merito, 2010, § 3; dottrina internazionale: Koziol, Punitive Damages – A European Perspective, 2008, 26 Luisiana L. R., 3, 741 e segg.; v. Markesinis, Coester, Alpa, Ullstein, Compensation for Personal Injury in English, German and Italian Law, A comparative Outline, Cambridge University Press, 2005, 46 e segg., Steele, Tort Law, Text, Cases, and Materials, Oxford University Press, 2007, 490 e segg..
La giurisprudenza accoglie completamente la dottrina: “All’accertamento della domanda di risarcimento dei danni da lite temeraria, non osta infatti l’omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte vittoriosa, che non è costituito dalla lesione della propria posizione materiale, ma dagli oneri di ogni genere che questa abbia dovuto affrontare per essere stata costretta a contrastare l’ingiustificata iniziativa dell’avversario e dai disagi affrontati per effetto di tale iniziativa, danni la cui esistenza può essere desunta dalla comune esperienza” – Cass. III Civ., n.17485/2011.
Non deve sottacersi, quindi, che l’infermiere affronta deleterie resistenze defatigatorie che lo costringono, nella totale indifferenza del datore, a profondere ulteriori impegni prestazionali impropri sia dal punto di vista quantitativo, perché non riceve alcun reclamo da disservizio o inadempimento (a dimostrazione che le mansioni ausiliarie le ha concretamente svolte altrimenti i pazienti o l’amministrazione si sarebbero lamentate), sia dal punto di vista qualitativo, garantendo attività meramente manuali degradanti e umilianti, alla luce della sua finalità professionale.
L’impegno in termini di stress, forza lavoro, dispendio di energie psico-fisiche poteva essere interrotto con salvezza dei diritti dell’infermiere e del residuo di salute, se il datore avesse valutato con serietà e interesse le richieste da lui formulate.
L’ospedale deve abbandonare l’idea che l’infermiere “debba fare tutto” e gli altri “solo quello che compete”.
Naturalmente, la perdita di know-how e la fossilizzazione delle mansioni elementari che avrebbero dovuto svolgere i profili meno professionalizzanti del sistema sanitario, ha portato gli infermieri a perdere l’interesse allo sviluppo e all’aggiornamento professionale, che invece li avrebbe dovuto motivare all’esordio della carriera.
Oramai, dopo tanti anni di inerzia sul fronte delle scienze infermieristiche, il gap esistente tra colleghi che hanno avuto la possibilità di espandere le proprie competenze e specializzarsi magari all’estero, è evidente e lede in maniera profonda e dilaniante le motivazioni e la capacità di competere dell’infermiere italiano.
Dinanzi un “vero” infermiere, i colleghi italiani appaiono semplicemente per quello che sono: ausiliari capaci di svolgere le più elementari mansioni (oggigiorno marginali), dell’infermiere (intramuscolari, intradermiche, fleboterapia) ignorando invece le tecniche avanzate della professione, oltre, ovviamente, a tutto quello che concerne l’attività dell’inserviente.
Ciò impedisce agli infermieri italiani di aspirare a nuove prospettive di carriera, di confrontarsi nei gruppi di lavoro che le istituzioni e le associazioni infermieristiche organizzano pedissequamente, di partecipare ai concorsi anche per affrontare nuove esperienze professionali in competizione nel mondo.
Non ci sono chance: si dovrebbero cancellare gli ultimi 40 anni sprecati a cambiare le lenzuola.
Un professionista come un infermiere, dovrebbe vantare esperienze e pratica profuse con serietà nella professione infermieristica e non nell’arte ausiliaria dell’accadimento del malato; anno dopo anno a riassettare il letto, a prendere vestiti e calzature dagli armadi per vestire i pazienti, a spingere barelle, a mettere, togliere e pulire padelle e pappagalli.
Da una situazione monotona, fossilizzata, umiliante e priva di ogni reale passione che invece la scienza evolutiva infermieristica impegna e soddisfa quotidianamente, al ricorrente non rimane che accettare la delusione delle aspettative in cui aveva tanto sperato.
L’infermiere non può sviluppare al meglio le proprie potenzialità perché è impegnato, di giorno in giorno, a svolgere prevalentemente il lavoro domestico del reparto, con prevedibili conseguenze di uscirne profondamente scoraggiato e privato di ogni affezione professionale.
E’ verosimile, per cui la prova è anche deduttiva, procedendo per presunzioni semplici come da jus receptum, che l’infermiere sia schiacciato dal costante svilimento e derisione che quotidianamente subisce dinanzi i sottoposti e i medici, nei confronti dei quali avverte una profonda umiliazione, essendo costantemente combattuto tra l’evidente contraddizione di quanto previsto teoricamente per l’esercizio intellettuale della professione infermiere e l’incompatibile attività ausiliaria, svolta con carattere di continuità che, invece, dovrebbe pianificare, programmare e valutare.
Difatti, con la pubblicazione del D.M. n. 739 del 1994, la comunità infermieristica capeggiata dalla Federazione Nazionale dei Collegi IP.AS.VI., ha diffuso una ventata di ottimismo affermando di aver conquistato, finalmente, un ruolo primario nel sistema sanitario nazionale ed aver dato vita ad una nuova entusiasmante carriera perché la parola “ausiliario” era stata eliminata dalla definizione di infermiere ed ora, al pari del medico, poteva vantare una maggiore considerazione e professionalità essendo riconosciuto a pieno titolo il ruolo di infermiere come “sanitario”.
Il decreto ha scatenato molte polemiche da parte della classe medica che si è vista concorrere con gli infermieri per l’accesso alle dirigenze sanitarie e agli ambiti posti nelle istituzioni che contano.
Ma il Ministero è stato coerente ed ha confermato il nuovo ruolo infermieristico italiano.
E’ naturale, ovvio, lapalissiano che gli infermieri cadano in deliquio quando, pulendo una padella sporca, incontrano un medico e così per ogni attività inferiore che svolge.
L’umiliazione è all’ordine del giorno e non si tratta solo di una umiliazione avvertita per sé, ma anche per l’intera professione perché ha il sapore amaro del fallimento, della presa in giro, della falsità; la reale sensazione che siano sfruttati come forza lavoro e non vengano considerati come professionisti.
Ma veramente per vuotare un pappagallo ci si deve iscrivere all’albo professionale?
L’utente deve verificare se chi pulisce la padella sia abilitato a farlo?
Per mettere i calzini ad un ricoverato bisogna comparire nell’albo professionale?
L’assenza di input migliorativi e di autocritica volta ad un progressivo sviluppo professionale, impedisce agli infermieri di coltivare uno stimolo capace di accrescere le proprie capacità tecniche e il proprio bagaglio culturale, emarginandoli definitivamente nell’angolo più buio del sistema sanitario moderno.
Venendo meno l’impegno proteso alla crescita personale in termini, anche, di appagamento professionale, gli infermieri hanno perso ogni speranza, soprattutto per carenza emotiva e di scopo, di impegnarsi per la progressione della carriera e per migliorare il proprio status sociale.
Non per nulla la giurisprudenza ha definito l’aspetto “esistenziale” dell’uomo come “dialogo interiore con se stessi” – Cass., III Civ., 9 giugno 2015 n. 11851.
Del resto la lesione psichica derivata dal profondo e irreversibile scoraggiamento che sfocia nella depressione e nell’apatia avverse la professione, che invece prima aveva ispirato gli infermieri, li ha condotti verso una sorta di isolamento sociale che tuttora li confina in un appiattimento monotono, privo di stimoli, costituito da attività elementari, meramente manuali che non gli appartengono, ma li costringono loro malgrado a fare quello che gli altri non vogliono fare, come se essere infermieri significasse pagare gli errori degli altri, una sorta di girone infernale da cui è impossibile uscire.
Tali attività, prive di ogni consistenza intellettuale ed evidentemente inferiori rispetto a quanto voluto, dovrebbero essere svolte dallo stesso personale subalterno che gli infermieri, stante a quanto affermano le leggi prima esaminate, dovrebbero gestire; questa palese dicotomia è vissuta come conflitto interiore che li strazia ogni giorno.
Da qui l’indissolubile connubio tra malattia psichica e tormento esistenziale per i quali la soluzione dottrinale e giurisprudenziale della unicità del danno non patrimoniale, risolve ogni incertezza nominalistica e risarcitoria.
Per un professionista come l’infermiere, non è più possibile tollerare una situazione del genere che si trascina senza speranze di soluzione, giorno dopo giorno da anni e fare finta di nulla.
E’ naturale che, nel tempo, una simile erosione psicologica vissuta e subita sul piano emotivo, fisico e morale, cioè plurioffensiva, possa produrre una sindrome plurilesiva che si dipana sugli affetti, sul sociale, sulle attività quotidiane della persona, fino ad impedire la gioia di stare in famiglia e con i figli.
Non poteva essere diversamente: l’amministrazione sanitaria ha sfruttato, nella stessa persona, due diversi profili funzionali: l’infermiere e l’ausiliario, locupletando ingiustamente sul secondo profilo.
Spesso gli infermieri, per questi motivi, svolgono le proprie mansioni con estrema superficialità e frettolosità, senza la possibilità di protendere al miglioramento tecnico in considerazione della persistente necessità di svolgere continuamente anche l’attività ausiliaria.
Ciò non vuol dire che siano state omesse le prestazioni infermieristica dovute, ma queste non sono state svolte con la diligenza e la prudenza che il tempo richiede.
Impegnato a rispondere ai campanelli, a pulire i malati, ad imboccarli, a vestirli, ad accompagnarli in bagno, a cambiare le lenzuola dei letti, non ha ovviamente il tempo di dedicarsi alla valutazione dei farmaci che somministra cioè non può informarsi circa il principio attivo del farmaco e sapere quali effetti collaterali potrebbe manifestare il paziente, quali intolleranze, quali controindicazioni sono stabilite, quale metodo e tecnica di somministrazione è attualmente accreditata dalla scienza infermieristica moderna.
L’infermiere non è quello che il D.M. n. 739 stabilisce, non lo è mai stato, perché corre per tutto il tempo pur di soddisfare ogni bisogno del malato, è un mero esecutore come lo era l’infermiere del 1940.
E tutto questo distrugge l’anima dell’essere infermiere oggi, in considerazione del livello evolutivo tecnico-scientifico raggiunto, che i nostri colleghi non si possono permettere di apprezzare e praticare.
La limitazione costante e pedissequa allo svolgimento delle proprie mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato (S.C., Lav., n. 8835/91, 13299/92, 1026/97, 11727/99, 14443/00, 10/02, 12553/03) che avendo natura immateriale, produce danni squisitamente non patrimoniali in quanto la mortificazione della professionalità del lavoratore incide sul valore umano della persona – Trib. Roma, Lav., 27 gennaio 2015 n. 836.
Anche l’infermiere, al pari di ogni altro lavoratore, ha il proprio personalissimo diritto alla identità personale ed alla dignità, tutelato dall’art. 2 Cost. che deve essere adeguatamente risarcito, così come è stato stabilito a partire dalle sentenze gemelle nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003.
Ora, non intendo prolungarmi sulla questione perché avrei ancora altro da scrivere e precisamente 216 pagine di prove inconfutabili a sostegno della mia teoria che lascio all’esame delle numerose sentenze attese dall’AADI sul demansionamento infermieristico, ma voglio concludere con una massima giurisprudenziale univoca: “Sussiste il diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale la cui lesione da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, anche l’obbligo di sanare i danni subiti, che possono assumere aspetti diversi in quanto possono consistere non solo nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità o nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, ma anche in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero alla immagine o alla vita di relazione (per tutte, Cass., 14 novembre 2001 n. 14199). Più in particolare ancora, occorre ribadire che la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa”.
Presidente AADI
Mauro Di Fresco
Uno sguattero come Voi.