Competenze professionali. Una nuova guerra dopo il comma 566? Allarme per un nuovo Accordo Stato Regioni. Le professioni: “Dentro c’è una sorta di ‘atto medico’ mascherato”
Da Quotidiano sanita.it
Il ministero della Salute ha inviato alla Conferenza Stato-Regioni una bozza di accordo sulla definizione delle attività delle professioni sanitarie che rischia di accendere nuove polemiche per la definizione delle “competenze mediche” come “criteri limite”
20 MAR – Nuovo rischio di tensioni tra professioni sanitarie e medici dopo quelle ormai quasi dimenticate del comma 566. La scintilla, secondo le prime indiscrezioni e i primi rumors che stanno circolando tra le professioni sanitarie in queste ore, è infatti ancora il tema delle competenze professionali e stavolta la causa scatenate è una bozza di Accordo Stato-Regioni per la Definizione delle attività delle professioni sanitarie nel Servizio sanitario nazionale, appena inviata (il 14 marzo) alla Conferenza dal ministero della Salute perché sia messa quanto prima all’ordine del giorno per l’approvazione. In quella bozza, secondo le professioni, si riaffaccierebbe lo spettro del temuto e mai condiviso “atto medico”.
Il testo dell’Accordo è estremamente asciutto e nasce come conseguenza del precedente Accordo del 2013 sempre incentrato sulle attività delle professioni sanitarie, con cui si è dato mandato al Consiglio superiore di Sanità (il quale, dicono ancora le professioni, “non ha ascoltato le parti coinvolte come invece sarebbe stato il caso di fare”) – di eseguire “la ricognizione delle attività di diagnosi, cura, assistenza, riabilitazione e prevenzione riservate alle professioni sanitarie, regolamentate ai sensi della normativa vigente, anche al fine di garantire la corretta informazione dell’utenza a tutela della salute”, per sancirle poi in un nuovo accordo, quello di cui è stata inviata quest’ultima bozza.
Il nuovo Accordo in sostanza prevede la definizione delle attività riservate alle professioni sanitarie e per farlo richiama la legge 43/2006 ribadendo i requisiti che questa prevede: titolo universitario con valore abilitante all’esercizio della professione, ordinamenti didattici dei corsi di laurea definiti da decreti dei ministeri dell’Università e della Salute, iscrizione obbligatoria all’albo professionale (per chi ce l’ha) subordinata al conseguimento del titolo universitario abilitante, aggiornamento professionale secondo le stesse regole di quello della professione medica.
Fissa poi – secondo le professioni in modo improprio rispetto al mandato – criteri guida e criteri limite.
I primi sono il contenuto del profilo professionale, quello degli ordinamenti didattici e quello dei codici deontologici.
I secondi, I “limiti” cioè, sono le competenze previste per le professioni mediche e quelle delle altre figure professionali sanitarie, salvaguardando per queste ultime “l’apporto e l’integrazione che ogni figura può fornire nell’attività in team”.
Il tutto concentrato in un solo articolo (il secondo stabilisce, come vuole la prassi, l’invarianza finanziaria) che, se per gran parte del suo testo ha semplicemente ribadito i principi già espressi nella legge 43/2006, innesca la bomba della polemica nel momento in cui per definire ulteriormente il “campo proprio di attività e responsabilità” delle professioni, indica tre criteri guida e, pietra dello scandalo, due criteri limite, tra cui quello delle competenze mediche richiamando, appunto, il vecchio spauracchio di quell’atto medico su cui si sono alzate le barricate, in realtà mai ancora del tutto abbassate.
Il concetto di “criteri limite” – criticato, secondo quanto appreso, già per questo genere di definizione – è la goccia che rischia di far traboccare il vaso se non interverranno correzioni in corso d’opera che le professioni stanno già sollecitando. E per di più il fatto che uno dei criteri limite sia quello delle “competenze previste per le professioni mediche”, infuoca gli animi. Anche perché è giudicato un di più, visto che solo qualche riga prima, per le attività svolte dalle professioni sanitarie sono indicate quelle di prevenzione, assistenza, cura e riabilitazione e non già diagnosi e terapia, implicitamente proprie della professione medica.
Una pesante critica che, a quanto si apprende, le professioni sanitarie stanno formalizzando in vario modo alle istituzioni coinvolte – ministero e Stato Regioni – e che parte dal presupposto che l’Accordo avrebbe dovuto coordinare “l’esercizio delle rispettive competenze e svolgere attività di interesse comune delle professioni” e “non – si dice – alzare ulteriori steccati e fissare paletti invalicabili con indicazioni che di per sé nessuno ha mai pensato nei fatti di bypassare”.
La bozza di Accordo, sempre secondo le indiscrezioni raccolte tra le professioni coinvolte, presenta però anche un rovescio della medaglia positivo. E’ l’interpretazione definitiva di un aspetto su cui finora ci sono state numerose contestazioni: quello dell’obbligatorietà dell’iscrizione agli albi per le professioni che li hanno. La bozza di accordo infatti stabilisce che, tra gli altri requisiti, le attività sanitarie sono riservate alle professionalità in possesso dell’“iscrizione obbligatoria all’albo professionale, laddove costituito, subordinata al conseguimento del titolo universitario abilitante”.
Più nessun dubbio quindi: per svolgere l’attività di infermiere, ostetrica, tecnico radiologia medica è d’obbligo l’iscrizione ai collegi. Per le rimanenti valgono tutti gli altri requisiti, finché, almeno, non sarà approvato il Ddl Lorenzin che con la trasformazione dei collegi in ordini prevede albi per tutti.