Riconoscimento del “superlavoro”, come causa di morte di un giovane tecnico di radiologia, sebbene ci siano voluti addirittura ben vent’anni, affinché ciò potesse essere dimostrato attraverso un palese riconoscimento giuridico. In questo caso, solo dopo aver effettuato turni massacranti per ben sette anni e sostenuto un numero di esami e di referti iperbolico.
Ci siamo allora chiesti cosa fosse il superlavoro.
Se fossimo stati in Giappone la morte del giovane sarebbe stata definita un classico ed evidente “karochi”. Da uno studio effettuato in questo Paese, su tale fenomeno, sono stati ricavati dati estremamente preoccupanti provenienti da un campionamento di circa 1743 imprese.
Nel solo 2015 vi sarebbero state 96 morti per superlavoro e 98 suicidi legati agli eccessivi carichi di lavoro. Il 23% delle imprese ha dichiarato di aver avuto dipendenti che avevano effettuato 80 ore di straordinario fisse al mese, mentre il 12% viaggiava ad oltre 100 ore extra, il tutto attraverso un acclarato, regolare e costante utilizzo della forma del lavoro straordinario. C’è però da aggiungere che Paese del Sol Levante è uno dei pochi che civilmente inserisce e riconosce il karochi come evidente ed oggettiva cause di morte.
In Svizzera su 4,9 milioni di lavoratori invece, più di un milione soffre di eccessivo stress sul posto di lavoro. Due milioni soffrono di esaurimento e questo stakanovismo da solo costa ben 3 milioni di euro all’anno.
E in Italia cosa definisce il superlavoro? La morte da superlavoro è un infortunio sul lavoro? E se adottiamo uno sguardo di genere, per superlavoro si intendono e si aggiungono anche le ore dedicate alla cura della famiglia sommate al lavoro normalmente svolto (double working day), andrebbero anch’esse valutate?
In Italia, pare che il problema non sia particolarmente recepito, anche se sentito e sebbene il burn-out esista e sia ben conosciuto, ma una sentenza della Corte di Cassazione numero 18211/2012, pare riaprire la problematica, fornendo spunti interessanti alla materia.
Questa sentenza risulta legata alla storia di un portiere di notte che, dopo aver svolto il proprio lavoro per oltre 20 anni (dal 1974 al 1997, sempre di notte e tutti i giorni dalle 21 alle 9 del mattino successivo) ha chiesto alla società per cui lavorava di essere spostato al turno diurno, ottenendo per tutta risposta il licenziamento, motivato dal fatto che la Società presso cui svolgeva il servizio, aveva già in carico altri due portieri per il turno di giorno e, pertanto, non si poteva esaudire la richiesta di cambio orario.
Alfio Stiro
Fonte
Quotidiano sanita.it