la sentenza del Tribunale di Brindisi n. 1306 del 9 maggio 2017, vittoria ottenuta dall’Avv. Tonia D’Oronzo.
Ci eravamo già espressi in merito alla sentenza con un articolo, ma dopo un confronto con il ricorrente ed il proprio difensore si è giunti alla conclusione che è una vittoria solo a metà, nel senso che alcune imprecisioni in essa contenute, a nostro avviso non marginali, debbano necessariamente essere corrette onde evitare di estendere tali errori di diritto anche in sentenze successive.
A prima vista, infatti, sembrerebbe un’ulteriore vittoria per la categoria infermieristica da anni demansionata e sfruttata per la mancanza del personale di supporto, in realtà la sentenza nasconde in sé delle inesattezze grossolane, dei precedenti pericolosi che se non corretti potrebbero replicare l’errore all’infinito.
Analizziamo nel dettaglio la sentenza in esame.
Con ricorso depositato il 7 maggio 2014, un infermiere professionale che lavora presso la ASL di Brindisi, lamenta di essere costretto a lavorare in tutti i turni di lavoro, senza personale di supporto, svolgendo di fatto mansioni alberghiere (tra cui riordino dei letti, trasporto dei pazienti, incombenze igieniche sui pazienti, chiusura dei ROT) non rientranti tra quelle di competenza infermieristica.
Essendosi quindi ravvisata l’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie dell’infermiere professionale, chiedeva che fosse ordinato all’azienda sanitaria convenuta di adibire il ricorrente allo svolgimento di mansioni appartenenti alla propria categoria professionale, con condanna al risarcimento del danno nella misura del 50% della retribuzione percepita netta al 13 marzo 2016.
Il giudice del lavoro ritiene il ricorso fondato ma nei limiti che verranno appresso precisati.
Il giudice rigetta l’eccezione di nullità del ricorso proposto dalla parte resistente (la ASL).
Il ricorrente ha premesso di essere infermiere professionale presso il reparto di chirurgia vascolare dell’Ospedale Perrino di Brindisi e di svolgere da diversi anni anche le funzioni che la normativa attribuisce agli O.S.S. ed agli O.T.A..
Le mansioni previste dalla normativa non hanno costituito specifica contestazione da parte della ASL, cosicché le circostanze possono certamente ritenersi pacifiche.
In sentenza il giudice elenca la normativa di riferimento riguardante la figura professionale dell’infermiere, oltre che quella specifica dell’OSS, riportando pedissequamente ciò che le stesse prescrivono, ma commette un primo errore a nostro avviso importante, allorquando afferma che in realtà non esiste una vera e propria gerarchia tra infermiere e OSS dal punto di vista della declaratoria dei profili.
Tutti sappiamo che l’infermiere è in categoria D (D1, D2….DS), mentre l’OSS e l’OTA sono in categoria C.
La contraddizione è quindi manifesta allorquando scrive che; “…anche in considerazione del percorso formativo per l’accesso alla professione (Laurea triennale ed eventuale specializzazione, nonché la necessaria formazione continua con i corsoi ECM), svolge mansioni maggiormente qualificate e pertanto superiori, tanto che il citato D.M. 739/94 dispone che l’infermiere provveda ad una sorta di “coordinamento” del personale di supporto”, come si può quindi affermare che non esista di fatto una gerarchia professionale?
Il percorso formativo dell’OSS è conformato come un corso regionale della durata di un anno, non è quindi una laurea triennale, men che meno ha una formazione specialistica o è condizionato a conseguire nel corso degli anni formazione obbligatoria attraverso gli ECM.
Prosegue il Giudice giustamente con il più volte citato art. 2103 del c.c., confermando che anche nel pubblico impiego sussiste il divieto di reformatio in pejus delle mansioni, ed infatti l’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 dispone che il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, ovvero a quelle considerate equivalenti e quindi, seppur indirettamente, dispone il divieto di assegnazione unilaterale a mansioni inferiori.
Però poi si contraddice di nuovo elencando due arresti giurisprudenziali (Cass. civile, sez. lav. 21/02/2013, n. 4301 e Cass. 7 agosto 2006, n. 17774) che parlano di “legittima assegnazione del dipendente a mansioni inferiori per esigenze di servizio allorquando è assicurato in modo prevalente ed assorbente l’espletamento di quelle concernenti la qualifica di appartenenza. L’espletamento di mansioni inferiori che implichi un impiego di energie lavorative di breve durata non incide sullo svolgimento in modo prevalente ed assorbente delle mansioni di appartenenza”. Un equivoco evidente, visto che l’infermiere e l’OSS non sono figure appartenenti alla medesima categoria professionale, come del resto non lo sono il medico e l’infermiere poichè, se così fosse, in assenza dell’infermiere il medico potrebbe essere demansionato ed obbligato, in modo non prevalente ma assorbente, all’espletamento di mansioni inferiori, cosa del tutto impensabile e fantasiosa. Guarda caso però, quando la questione riguarda gli infermieri, come d’incanto, le qualifiche e le categorie professionali scompaiono e si appiattiscono verso il basso come a giustificare un demansionamento a singhiozzo, quel tanto che basta per non essere considerato tale.
Evidentemente il giudice è stato indotto in errore dall’unica sentenza ad oggi che consente il demansionamento del personale infermieristico, ossia il ricorso presentato in appello dalla sigla sindacale Nursind sui ROT, ricorso che per altro era stato vinto in primo grado dal Prof. Di Fresco.
Il giudice quindi ripete lo stesso errore più volte quando scrive che si può quindi sinteticamente affermare che, “il datore di lavoro può adibire a mansioni inferiori il lavoratore a due condizioni, concorrenti:
che si tratti di impegno di breve durata e di carattere occasionale;
che detto impegno consenta, comunque, l’espletamento di mansioni proprie della qualifica di appartenenza in modo prevalente ed assorbente.
Non si tratta come abbiamo sempre ribadito di eseguire mansioni che in realtà sono assorbenti quella infermieristica, come ad esempio gettare la reniforme della terapia endovenosa o intramuscolare, o la carta nel secchio, ma di eseguire attività che non sono mai appartenute alla categoria infermieristica, come più volte ribadito anche dal collegio negli anni 80/90, anche se ora fa finta di aver dimenticato per esigenze politiche e di casta, ossia: il rifacimento letti, le cure igieniche, le attività alberghiere.
Se ciò non costituisse un illecito, si applicherebbe anche al dirigente medico che, chiamato a svolgere le mansioni dell’infermiere soltanto se capita a volte ed in maniera non prevalente, continuerebbe comunque a svolgere il proprio lavoro e non sarebbe quindi demansionato; bisognerebbe allora iniziare ad applicarlo, almeno potremmo vedere le giuste reazioni degli ordini dei medici che sicuramente non accetterebbero mai una simile condizione.
Dulcis in fundo, un’ulteriore perla di diritto, il giudice nel motivare la sua decisione finale sul perché non ha concesso oltre al risarcimento dei danni patiti valutati in via equitativa per valore pari al 6% della retribuzione percepita dal 01.10.2006 (un risarcimento non solo esiguo, ma che non ha considerato il danno biologico e professionale dovuto ad anni di dequalificazione) anche l’inibitoria, ossia impedire alla ASL di continuare a demansionare l’infermiera adibendola alle mansioni non appartenenti alla propria qualifica, riprende la citata sentenza di appello sui ROT del Nursind:
“in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, non può ritenersi lo svolgimento occasionale e residuale rispetto ai compiti propri della qualifica, sia sufficiente ad integrare un’ipotesi di svolgimento di mansioni inferiori vietato dalla legge. Per aversi demansionamento, ossia una situazione giuridica tutelabile dalla legge in quanto concretante una fattispecie concreta posta in essere in violazione dell’art. 52 del D.lgs. n 165/01, è infatti necessario il prevalente e costante svolgimento di compiti afferenti ad un livello di inquadramento inferiore a quello di assunzione”; cosa del tutto priva di criterio, viste anche le testimonianze dei colleghi che hanno confermato il costante demansionamento professionale, oltre alle circolari interne della direzione sanitaria che obbligavano il personale ad eseguire mansioni improprie.
Per questi motivi, l’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, contattata dal difensore e dal ricorrente, ha consigliato di appellare la sentenza de qua, indicando i tre punti da scardinare perché travisati ed esegeticamente errati; eviteremo così di nuocere al futuro della professione.
NurseNews.eu