Riceviamo e pubblichiamo un interessante spunto di riflessione
Di Sergio Costantino.AnaaoAssomed Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano.
Per la Comunità europea il tempo di arrivo in ospedale durante la reperibilità, e di rientro al domicilio, sono da considerare orario di lavoro
La divisione manichea (lavoro/riposo) che deriva dalla Direttiva 2003/88 CE dimostra una volta di più che spesso il buonsenso non alberga nella mente dei legislatori. Ritengo obbligo del sindacato cercare di porre rimedio alle storture che nascano da interpretazioni irreali, obbligo di azione propositiva anticipando legislatori ed istituzioni.
Infatti considerare per converso tempo di riposo tutto quello che non sia orario di lavoro ha vistose lacune.
Gli esempi più classici sono nei tempi di trasferimento tra casa e luogo di lavoro e ritorno. Ovviamente nessuno chiede che vengano considerati orario di lavoro ma da qui a dire che sono riposo a mio giudizio ovviamente ce ne passa. Occorrerebbe modulare l’assolutismo introducendo un periodo grigio che non è né lavoro né tanto meno riposo. Occorrerebbe trovare un correlativo del “in itinere” infortunistico ovvero non sei al lavoro ma nemmeno a riposo a casa tua (o dove meglio ritieni opportuno)
Per ora questa visione, suggerita anche dal Procuratore Generale Antonio Saggio relatore nel caso SIMAP , non ha trovato spazio. Non ha trovato spazio perché si preferisce disquisire in termini giuridici e non affrontare le problematiche partendo dagli esempi pratici. “la ratio della direttiva, che è appunto quella di assicurare ai lavoratori un tempo ragionevole di riposo.”
Il giudice prosegue: il fatto stesso che il lavoratore reperibile non possa comunque avere la disponibilità totale e assoluta del proprio tempo rende infondata una interpretazione delle norme in esame che conduca a includere i periodi di reperibilità nell’orario di riposo.”
ed ancora: “Sono dunque del parere di considerare che le ore di reperibilità in cui il lavoratore non esercita alcuna attività non rientrino nell’orario di riposo, con la conseguenza che i lavoratori che sono in regime di reperibilità, come i componenti di una équipe di guardia medica, hanno comunque titolo, al termine di questo periodo, alle ore di riposo minimo” (A. Saggio sentenza SIMAP)
Il riposo minimo continuo che dovrebbe essere garantito al lavoratore è di 11 ore (e sottolineo minimo)
Quando si verifichi un turno diurno di 12 ore (o 12.30) ipotizziamo che il lavoratore esca dall’ospedale alle ore 20.30/21.00. Considerando acriticamente la disposizione della Direttiva potrà legittimamente rientrare in servizio come minimo dopo 11 ore. Quindi tra le 7.30 e le 8.00 del giorno successivo
Questa affermazione non tiene conto dei tempi di trasporto che, per chiunque lavori in un centro urbano, tutto sono salvo che riposo. Le richieste fatte a suo tempo dai lavoratori SIMAP in qualche modo hanno determinato negativamente le successive risposte a tutti i lavoratori. Ad esempio la richiesta di considerare la reperibilità come orario di lavoro (e lo è se effettuata all’interno della struttura di lavoro ma non lo è se effettuata al domicilio del lavoratore) è sicuramente una richiesta eccessiva. Vero è che la giurisprudenza italiana aveva affermato che la reperibilità non poteva essere inquadrata nel riposo (e la clausola di non regresso dove è finita e perché nessuno la considera in questo caso? “In nessun caso l’attuazione della presente direttiva costituisce una ragione sufficiente per giustificare una riduzione del livello generale di protezione dei lavoratori rientranti nel suo ambito di applicazione“ . Una norma ed una applicazione più favorevoli localmente non dovrebbero essere negate sulla scorta dell’interpretazione ed applicazione sfavorevoli di una Direttiva comunitaria).
Il giudizio della Corte Europea non ha avuto tale lungimiranza (applicando il testo letteralmente ed acriticamente). Io sono dell’avviso, ma non sono una mente giuridica ovviamente, che la reperibilità al domicilio non possa essere considerata riposo perché pone dei vincoli al libero movimento del lavoratore e lo costringe ad essere reperibile in un raggio di spazio tale per cui possa raggiungere l’ospedale in un tempo ragionevole (stimato dai più in 30 minuti) ed in una zona che non sia “schermata” e muta per il cellulare.
Tuttavia la stessa Comunità ci da sull’argomento una risposta favorevole in un punto ed adesso il divertente sarà far passare il messaggio presso le nostre amministrazioni. Nel caso della reperibilità domiciliare il tempo per raggiungere l’ospedale e per tornare al domicilio è esso stesso da considerare orario di lavoro.
Nel caso invece in cui i lavoratori devono essere reperibili in ogni momento, ma non sono tenuti a rimanere in un luogo determinato dal datore di lavoro, essi possono gestire il loro tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi. In tali situazioni, definite anche «reperibilità», solo il tempo relativo alla prestazione effettiva di servizi, che comprende il tempo impiegato per raggiungere il luogo di prestazione dei servizi, dev’essere considerato orario di lavoro ai sensi della direttiva .(CE 24/5 /2017)
Buona fortuna dunque tenendo presente che quanto ricordato dalla Comunità e la sentenza di riferimento potrebbero dar luogo alla richiesta di reintegro di tutte le ore non conteggiate del passato sino ai termini previsti dalla Legge.
Alfio STIRO
NurseNews.eu