Commento sentenza Cass. sez. lavoro, 25 settembre 2017, n. 22288
Ennesimo arresto giurisprudenziale della Corte di Cassazione a conferma della tesi AADI in fatto di demansionamento/dequalificazione, il risarcimento del danno da demansionamento non è ipotizzabile solo ed esclusivamente nel ristoro patrimoniale di miseri risarcimenti che non superano mai il 5-6% della retribuzione media percepita, poichè sussiste anche un vero e proprio danno di tipo non patrimoniale, una lesione alla vita di relazione che compromette il normale svolgimento delle attività di vita e di lavoro, oltre che alla dignità professionale e personale, tali da comportare, come nel caso de quo, un danno di tipo non patrimoniale che si attesta anche al 50% della retribuzione media percepita.
Bocciato quindi il ricorso del datore di lavoro, diventa così definitivo il risarcimento di 18.200 euro liquidato dalla Corte d’Appello che, in parziale accoglimento del gravame proposto dal lavoratore, riconosce l’attribuzione a mansioni inferiori per oltre due anni.
Nessun dubbio quindi che il demansionamento sussista, perché il giudice del merito lo verifica attraverso il procedimento c.d. trifasico indicato dalla giurisprudenza di legittimità, che prevede: l’accertamento del fatto delle attività lavorative svolte in concreto; l’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria; il raffronto tra il risultato della prima indagine e i requisiti previsti dalla normativa contrattuale individuati nella seconda.
Non tutti i demansionamenti provocano un danno esistenziale, ma la lesione non patrimoniale si configura sempre, laddove la responsabilità contrattuale del datore investe diritti inviolabili garantiti al lavoratore dalla Costituzione.
La Corte di Appello di Milano rigettava il gravame posto dalla società AS s.r.l. contro la pronuncia del Tribunale della stessa sede che, in parziale accoglimento del ricorso, aveva condannato la società al pagamento in favore del ricorrente della somma di euro 18.200,00 a titolo di risarcimento del danno, per essere stato attribuito a mansioni inferiori per il periodo compreso tra il giugno 2003 ed agosto 2005.
La società AE (già AS in essa fusa) s.r.l. ricorre in Cassazione, fondando su 4 motivi di ricorso le proprie deduzioni.
La società lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., lamenta in merito che la Corte non avrebbe proceduto ad alcuna comparazione tra, la declaratoria della categoria di appartenenza del dipendente e le mansioni cui egli era stato adibito dal 2003 al 2005, anzi addirittura che non abbia menzionato nessuna declaratoria.
Con altro motivo di ricorso lamenta che i giudici del merito non avrebbero indagato sull’esistenza di un effettivo danno, ma avrebbero presupposto che sussistesse un danno non patrimoniale di tipo esistenziale consistente, non in alterazioni relazionali ed al mutamento in pejus delle abitudini di vita, ma in “una lesione alla dignità personale ed al prestigio personale”.
In questo modo, secondo la società ricorrente, si sarebbe omesso di considerare che ogni demansionamento provoca necessariamente un danno e la pronuncia della corte territoriale sarebbe stata emessa in difetto della prova dello stesso.
La società ricorrente lamenta inoltre violazione dei principi generali in tema di illecito e di danno di cui agli artt. 1218, 1223, 2043, 2056, 2059 c.c., la Corte di merito avrebbe liquidato un risarcimento in totale carenza di deduzioni di parte del dipendente che non avrebbe allegato neppure un suo turbamento soggettivo o un suo intimo dolore, né direttamente né indirettamente, limitandosi a dare per scontato che, a seguito di demansionamento, debbano derivare necessariamente danni non patrimoniali.
La Suprema Corte esprime le proprie deduzioni nel seguente modo: la società ricorrente si duole del fatto che nella sentenza oggetto del presente giudizio si sarebbe erroneamente considerato il risarcimento del danno non patrimoniale sotto il profilo di danno esistenziale come richiesto dal dipendente.
In realtà la Corte territoriale in linea con i precedenti arresti di questo collegio ha correttamente reputato che il danno non patrimoniale ricomprendente anche il danno c.d. esistenziale, deve essere risarcito quando sia conseguenza di una lesione in ambito di responsabilità contrattuali di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti e che la sussistenza del danno possa essere provata anche a mezzo di presunzioni semplici sulle quali il giudice può fondare le proprie convinzioni, come nel caso di dequalificazione/demansionamento professionale del lavoratore subordinato.
E’ quindi nel pieno rispetto dei principi enunciati dalla Suprema Corte che i giudici di seconda istanza hanno ritenuto che, nella fattispecie, si colgano “quegli indici presuntivi della presenza del danno c.d. non patrimoniale di tipo esistenziale, quale lesione alla dignità personale ed al prestigio professionale…”.
Pertanto respinge il ricorso della società in epigrafe e la condanna alle spese di giustizia liquidate in 4100,00 euro più spese generali.
Dott.Carlo Paisanello
NurseNews.eu