Evoluzione del concetto di infezione ospedaliera e dimensione del fenomeno. Possiamo definire infezione ospedaliera, o nosocomiale, ogni episodio infettivo contratto da un paziente o un dipendente a causa della permanenza o dell’attività lavorativa in ambiente ospedaliero. L’eziologia di tale infezione, sia essa virale, batterica, fungina, non modifica la caratteristica di “nosocomiale” in quanto questa tipologia di infezione è collegata esclusivamente al fatto di non essere presente al momento dei ricovero e di essere stato contratta sicuramente in ambiente ospedaliero. Non esiste un’unica modalità di contagio né un’unica tipologia di ambienti a rischio. Tale problematica è direttamente legata al livello di rischio biologico presente nei singoli ambienti di lavoro o di ricovero, alle singole procedure assistenziali, alle procedure diagnostiche e terapeutiche messe in atto o cui si è sottoposti ed alle patologie concomitanti. Una corretta analisi dei rischio biologico e l’adozione di appropriate procedure permettono di prevenire e controllare tale fenomeno che si evidenzia attraverso un indicatore diretto quale appunto l’infezione ospedaliera. Le infezioni ospedaliere, “infezioni correlate alle pratiche sanitarie o assistenziali”, Sicuramente il messaggio più importante è quello di cominciare a pensare alle infezioni non solo come evento legato alla ospedalizzazione, ma come l’effetto diretto di una scorretta o scadente qualità nelle procedure medico-sanitarie. In questo senso l’infezione non legata al luogo ma alla procedura, non è più solo “dell’ospedale” ma di ogni Operatore Sanitario sia esso ospedaliero o di altre strutture sanitarie che territoriale. Non solo i pazienti sono a rischio: vengono anche coinvolti, pur se in percentuale molto inferiore, il personale ospedaliero o soggetti che vengono per diversa natura a contatto con i malati (personale volontario, religioso, studenti, ecc.). A causa della durata sempre più breve del ricovero, è in aumento il numero delle infezioni ospedaliere che si manifestano dopo la degenza. Infatti è stato segnalato che una percentuale variabile dal 19 al 66% delle infezioni delle ferite chirurgiche si manifesta dopo la dimissione (2). In Italia in molte strutture ospedalie-re la sorveglianza delle infezioni ospedalie-re non viene praticata, nemmeno per gli eventi che accadono durante la degenza. In altre nazioni, dove tali complicanze sono sotto stretto controllo, è stato osservato che si hanno notevoli ripercussioni economiche (3). Queste non riguardano solo l’ospedale, ma il SSN (l’assistenza extraospedaliera, la riabilitazione), la società (perdita di produttività) e per la famiglia (perdita di reddito e costi legati all’assistenza del soggetto). La sorveglianza post-dimissione potrebbe essere praticata mediante interviste telefoniche, questionari rilasciati alla dimissione, follow-up clinici (4). In Italia il medico di famiglia è il primo filtro dell’assistenza sanitaria. E’ quindi importante coinvolgere nel follow-up clinico tale figura professionale. infezione in pazienti ospedalizzati è ancora un evento frequente e per certe localizzazioni molto grave. Ciò è stato favorito dall’evoluzione delle tecnologie biomediche, dalla maggior percentuale di pazienti altamente suscettibili alle infezioni, dalle procedure invasive più diffuse e dal modificarsi delle terapie ospedaliere. Inoltre il largo uso di antibiotici ad ampio spettro a scopo profilattico e terapeutico ha anche selezionato l’emergenza di ceppi antibiotico-resistenti. L’infezione ospedaliera è una infezione che insorge durante il ricovero in una struttura ospedaliera o in alcuni casi dopo che il paziente è stato dimesso e che non era manifesta clinicamente, né in incubazione al momento dell’ammissione (1). L’incidenza delle infezioni ospedaliere varia dal 5 al 10%. Sono segnalate soprattutto infezioni delle vie urinarie, delle ferite chirurgiche e polmoniti. Non solo i pazienti sono a rischio: vengono anche coinvolti, pur se in percentuale molto inferiore, il personale ospedaliero o soggetti che vengono per diversa natura a contatto con i malati (personale volontario, religioso, studenti, ecc.). A causa della durata sempre più breve del ricovero, è in aumento il numero delle infezioni ospedaliere che si manifestano dopo la degenza. Infatti è stato segnalato che una percentuale variabile dal 19 al 66% delle infezioni delle ferite chirurgiche si manifesta dopo la dimissione (2). In Italia in molte strutture ospedalie-re la sorveglianza delle infezioni ospedalie-re non viene praticata, nemmeno per gli eventi che accadono durante la degenza. In altre nazioni, dove tali complicanze sono sotto stretto controllo, è stato osservato che si hanno notevoli ripercussioni economiche (3). Queste non riguardano solo l’ospedale, ma il SSN (l’assistenza extraospedaliera, la riabilitazione), la società (perdita di produttività) e per la famiglia (perdita di reddito e costi legati all’assistenza del soggetto). La sorveglianza post-dimissione potrebbe essere praticata mediante interviste telefoniche, questionari rilasciati alla dimissione, follow-up clinici (4). In Italia il medico di famiglia è il primo filtro dell’assistenza sanitaria. E’ quindi importante coinvolgere nel follow-up clinico tale figura professionale. Paziente chirurgico Nel paziente sottoposto ad intervento chirurgico o a procedure diagnosti-che invasive, la complicanza più spesso osservata è l’infezione della ferita (5). L’aumento delle procedure chirurgiche eseguite ambulatoriamente o in ricovero giornaliero o con degenze sempre più breve rendono necessaria un’attenta sorveglianza a domicilio. Il trattamento di tali infezioni può andare dal drenaggio e disinfezione della ferita, all’utilizzo di una terapia antibiotica sistemica, fino al rinvio del paziente in ospedale per un reintervento. Il paziente compromesso Il paziente compromesso è un soggetto in sui si hanno deficit congeniti o acquisiti dei meccanismi di difesa immunitaria specifici o aspecifici. La risposta immunitaria umorale o cellulo-mediata, la risposta infiammatoria (fagocitosi, complemento) possono essere alterate per malattie congenite, infezioni virali (HIV/AIDS), splenectomia, terapie antitumorali, neoplasie, traumi, interventi chirurgici. Vanno considerati anche alcune malattie sistemiche, come il diabete mellito, la cirrosi epatica, l’insufficienza renale cronica, le malattie autoimmunitarie. In tali soggetti compromessi, causa di infezioni sono solitamente agenti infettivi
commensali o scarsamente patogeni. Sono frequenti le polmoniti, ma sovente la febbre è l’unico sintomo. In tali condizioni risulta essenziale una diagnosi tempestiva con relativa precoce terapia mirata. E quindi spesso c’è il ricorso alle strutture ospedaliere specialistiche. Paziente istituzionalizzato A rischio di acquisire infezioni caratterizzate dalle stesse modalità di presentazione e dagli stessi agenti eziologici delle infezioni ospedaliere, sono i soggetti istituzionalizzati: anziani, spesso non autosufficienti con demenza, portatori di handicap fisici o psichici gravi, soggetti con patologie croniche. Il fattore di rischio nelle strutture per lungodegenti è rappresentato sia dalle condizioni di base dei pazienti (malattie croniche, incontinenza fecale ed urinaria, uso di farmaci immunosoppressori, demenza) che dalle condizioni assistenziali ed ambientali che favoriscono la trasmissione di germi. Tra le infezioni più frequenti, abbiamo l’influenza, con la relativa complicanza polmonare. Necessaria è quindi la vaccinazione antiinfluenzale da praticare ogni anno prima dell’inverno. Altre infezioni gravi sono la tubercolosi, le gastroenteriti da virus (rotavirus), batteri (E. Coli), protozoi o elminti (6), le polmoniti da S.aureus, K. Pneumoniae o P. aeruginosa. Spesso i batteri sono multiresistenti: le cause vanno ascritte all’uso inappropriato delle terapie antibiotiche e alla mancanza di programmi di sorveglianza e controllo delle infezioni. Personale di assistenza e volontariato L’assistenza domiciliare (che ormai si va sempre più diffondendo) di pazienti che necessitano di terapie complesse e di moderata invasività, coinvolge oltre al personale medico ed infermieristi-co, anche altre figure quali parenti, conviventi e volontari. Ad essi bisogna impartire le norme di prevenzione da qualsivoglia tipo di contagio, con attenzione e competenza. Vanno raccomandati l’accurata igiene delle mani, l’uso di dispositivi di barriera (mascherine, occhiali, guanti) e di appropriati contenitori rigidi per la raccolta e lo smaltimento di aghi e materiale tagliente. Utile la vaccinazione contro l’epatite B. Particolare cura deve essere riposta nell’istruire coloro che assistono i malati di AIDS: i pazienti con AIDS e certa o ipotetica tubercolosi polmonare devono essere informati sulle precauzioni da prendere per prevenire la trasmissione dell’infezione batterica ai conviventi e contatti. D’altra parte coloro che assistono soggetti con AIDS devono essere consci sul rischio di esposizione all’infezione tubercolare. Le infezioni ospedaliere (IO) costituiscono una grande sfida ai sistemi di salute pubblica, perché sono un insieme piuttosto eterogeneo di condizioni diverse sotto il profilo microbiologico, fisiologico ed epidemiologico che hanno un elevato impatto sui costi sanitari e sono indicatori della qualità del servizio offerto ai pazienti ricoverati.
La prevenzione, il controllo e la corretta gestione delle infezioni ospedaliere si posizionano sempre di più come obiettivi di grande rilievo in ogni fase di progettazione sanitaria. Gli investimenti in questo settore, se ben gestiti, possono dare buoni frutti. Il 30% delle infezioni sono prevedibili: ogni anno si potrebbero evitare tra le 130.000 e le 200.000 infezioni con il relativo 1% di decessi. Il peso economico di questa “epidemia” è valutabile intorno a 100 milioni di euro l’anno, calcolando i costi diretti per le cure e quelli indiretti comunemente valorizzati in giornate di lavoro perse. La comparsa del CIO nello scenario sanitario nazionale è databile all’anno 1985, quando con la Circolare Ministeriale n. 52/85 si delibera che la definizione delle strategie di contrasto alle infezioni nosocomiali è funzione del CIO “organismo multidisciplinare responsabile dei programmi e delle strategie di lotta e di contrasto contro le infezioni ospedaliere”. Con la sua istituzione si identifica “chi” in ambito ospedaliero deve gestire il problema infettivo nosocomiale e “come”. Dal 1985 ad oggi, si sono fatti notevoli progressi, le infezioni nosocomiali non sono più un fenomeno di nicchia, bensì sono ritenute indicatori di qualità in sanità e classificate “eventi avversi” nelle quali, frequentemente, incorrono i pazienti ospedalizzati e sottoposti ad interventi diagnostico-terapeutici invasivi e/o cruenti. la A conferma di ciò, il Piano Sanitario Nazionale 2002-2004 identifica le infezioni nosocomiali quali “errori in medicina”, complicanze che comportano un grave problema per sanità pubblica con costi sociali, economici e sanitari rilevanti. L’Azienda Sanitaria Roma B, da sempre sensibile in materia di prevenzione delle infezioni nosocomiali, ha attivato negli anni novanta il CIO con l’obiettivo di: contrastare il fenomeno infettivo nel paziente/utente e nell’operatore sanitario, garantire prestazioni sanitarie qualitativamente elevate, rispondenti ai requisiti ed agli indicatori utili per l’accreditamento delle strutture sanitarie. Tali obiettivi sono stati posti anche nel documento aziendale 2006 di Risk Management. IL COMITATO PER IL CONTROLLO DELLE INFEZIONI OSPEDALIERE Il Consiglio d’Europa che sin dal 1971 ha emanato numerose raccomandazioni ai singoli Governi in merito al problema delle IO, ha riaffermato nel 1984 con la Raccomandazione n.5 1984/20, che la soluzione, o per lo meno il contenimento di tale complesso fenomeno, dipende dalla messa in opera di una “strategia globale” che interessi tutti i settori dell’ospedale e che necessita, per realizzarsi, della collaborazione di tutti coloro che vivono (degenti), frequentano (pazienti ambulatoriali, visitatori) o intervengono nell’ospedale (personale Sanitario e non, altri soggetti facenti parte dell’istituzione). L’Organizzazione Mondiale della Sanità, sempre nel 1984, indicava a sua volta la lotta alle IO come prioritaria nell’ambito del progetto “Salute per tutti nell’anno 2.000” (sottoprogetto: “malattie da infezione”). Nella raccomandazione n.5 del Consiglio d’Europa per attuare la strategia globale predetta, era proposta l’istituzione, all’interno di ogni presidio ospedaliero, di un Comitato per la lotta alle IO che è definito come “..l’organo centrale che sceglie ed elabora la strategia, la impone a tutte le persone in ospedale, ne controlla e ne valuta l’attuazione”. Tale proposta é stata resa concreto in alcuni ospedali italiani ricorrendo all’istituzione formale di un Comitato o Gruppo operativo, responsabile del controllo delle IO, ricalcando altre esperienze internazionali ma in gran parte riferendosi a quelle anglosassoni e Il Ministero della Sanità, al fine di uniformare l’Italia alla maggior parte dei paesi europei ed agli Stati Uniti, con circolare n. 52 del 20/12/85 e successivamente con circolare n.8 del 30.1.88 aventi come oggetto la “lotta alle IO”, recepisce in pieno le raccomandazioni europee ufficializzando il problema e indicando la composizione di massima del Comitato per le IO nonché alcuni provvedimenti organizzativi da attuare in ciascun presidio ospedaliero. Il Comitato predetto, é stato anche previsto dal Decreto del Ministero della Sanità 13 settembre 1988 sulla determinazione degli standards del personale ospedaliero e dall’ art. 135 del DPR 28.11.90, n.384 che disciplina le “commissioni per la verifica e la revisione della qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie, al comma 6 lettera m) indica, in particolare, gli obiettivi relativi alla valutazione di progetti di metodologie per la prevenzione delle IO; confermato dal recente D.L. 30.12.92, n° 502, art. 10, riguardante il controllo di qualità dell’assistenza nei confronti della generalità dei cittadini. L’ottimale composizione del CIO e l’esame dell’attività svolta dallo stesso, sono divenuti elementi conoscitivi indispensabili per l’espressione di un documentato giudizio sull’efficienza delle aziende sanitarie ed, in ultima analisi, sull’incisività degli stessi atti di riordino del SSN. L’attività di prevenzione e controllo delle IO deve essere intesa come un intervento multidisciplinare in cui più professionisti (direttore medico, medici, infermiere, microbiologo, infettivologo, farmacista ecc.) con le proprie specifiche competenze e responsabilità concorrono per un obiettivo comune: “promuovere la qualità dell’assistenza prevenendo le IO”. I Comitati, vecchi e nuovi, devono quindi implementare processi di reingenerizzazione delle loro attività. e il personale impegnato in questa attività dovrà svolgere tali compiti non come un semplice adempimento di atti ordinari, bensì come un perseguimento di obiettivi e un raggiungimento di risultati. Il comitato deve essere in grado di gestire soprattutto realtà più dinamiche, apparentemente caotiche, ma foriere d’innovazioni, invenzioni e cambiamento. Le circolari ministeriali su citate, circa la composizione del Comitato, indicano testualmente: “… il Comitato coadiuvato dal Direttore Sanitario deve comprendere almeno un rappresentante delle altre aree funzionali, ma gli esperti in igiene, in malattie infettive ed in microbiologia debbono costituire le figure essenziali, così come é fondamentale la presenza del dirigente del personale infermieristico”. Il Direttore medico di presidio gioca, in questo contesto, un ruolo determinante per il cambiamento organizzativo e la crescita culturale e scientifica dei professionisti della sanità, attraverso “revisioni sistematiche” dell’informazione e della formazione. La nascita disordinata antecedente all’emanazione delle Circolari del Ministero della Sanità del 1985 ha determinato in diverse realtà ospedaliere il ritenere sinonimi il Comitato per le IO e il Gruppo Operativo e a favorire comunque la creazione di gruppi operativi eterogenei miranti a tipi di intervento settoriali nell’ambito ospedaliero, ad indirizzo prevalentemente microbiologico o farmacologico a seconda del “peso” che l’operatore più sensibile al problema sia riuscito a determinare. É ovvio che l’assetto organizzativo del Comitato possa variare in relazione alla struttura dell’ospedale, nonché al livello di qualificazione e complessità dello stesso ed al livello di partecipazione e responsabilizzazione dei componenti del Comitato.. Uno dei problemi più comuni nell’attivazione dei programmi di controllo delle IO é la definizione delle diverse e successive fasi d’attuazione. Si ritiene utile riportare una sintesi delle raccomandazioni fatte a questo proposito dalla Joint Commission for the Accreditation of Hospitals. I Fase 1. – nominare il Comitato – definire le responsabilità e le autorità – definire i compiti e le autorità della ICN (capo sala addetta al controllo delle IO) 2. – sviluppare le definizioni di i.o. – organizzare un Sistema di Sorveglianza – esaminare, sviluppare e rivedere le pratiche correnti relative a: – sterilizzazione/disinfezione/asepsi – igiene ospedaliera/smaltimento rifiuti – assicurarsi un adeguato supporto del Laboratorio – esaminare, sviluppare o rivedere il programma per la tutela della salute dei dipendenti. II Fase 1. – attivare programmi d’educazione ed orientamento del personale – stabilire un coordinamento formale e regolare con il personale medico per le azioni da prendersi per il monitoraggio dell’uso degli antibiotici 2. – Esaminare, sviluppare o rivedere le pratiche correnti, relative a: – tutti i reparti – procedure ad alto rischio d’infezione – materiale a perdere Organizzazione 1. Organizzazione generale e direzione Realizzazione di una Unità Organizzativa centrale nell’azienda – Comitato alla lotta delle Infezioni Ospedaliere la sua realizzazione è prevista entro ……. mesi: …………………… con delibera già approvata/ n corso di formalizzazione/ordine di servizio Il Comitato CIO è in staff a: Direttore Generale/Direttore Sanitario Aziendale Il Comitato alla lotta delle Infezioni Ospedaliere è un organismo tecnico-scientifica dell’Azienda. E’ identificata la sua funzione generale (mission), la visione strategica, leaders ben individuati, ed esiste un documento programmatico in cui sono specificati: la missione, la visione strategica e gli obiettivi a lungo, medio e breve termine, congruenti a quelli dell’Azienda che costituiscono il riferimento per la programmazione, la messa in atto e la valutazione delle attività. Missione = la ragione di essere della organizzazione e i valori a cui si ispira; visione strategica = l’indirizzo dato al Comitato dalla Direzione Generale: consiste nel definire i settori prioritari di azione (che cosa fare ed i metodi da adottare per raggiungere gli obiettivi); obiettivi: di breve periodo (entro un anno; medio periodo (entro due-tre anni); di lungo periodo (entro cinque anni). 1.2 Gli obiettivi corrispondono alle seguenti caratteristiche: sono basati sui bisogni e/o sulla domanda espressi dalla popolazione e sul mandato legislativo/normativo e/o autodeterminati. Sono congruenti con gli obiettivi dei livelli organizzativi sovraordinati (per il Comitato CIO, l’Azienda, per il Dipartimento, il Comitato CIO; per le Unità Operative, il Dipartimento). Sono misurabili mediante indicatori. 1.6. Esiste documentazione che gli obiettivi sono conosciuti dal personale delle Unità Operative, del Dipartimento, dalla Direzione Sanitaria (mediante comunicazione scritta) e sono resi sinteticamente accessibili ai pazienti (mediante opportuna documentazione scritta). È prevista un’attività di valutazione degli obiettivi con la partecipazione degli operatori del’area interessata. Il fiorente dibattito intorno all’organizzazione ed ai volumi di attività delle strutture ospedaliere del SSN ed il crescente interesse al problema delle IO ha spinto, ai giorni nostri, numerose istituzioni, gruppi di ricercatori e operatori a studiare e, successivamente, ad attivare tra le modalità efficaci di prevenzione e controllo, l’esame degli assetti organizzativi. Il CIO é considerato una “struttura organizzativa” tecnico-consultivo rappresentativo delle diverse aree funzionali ospedaliere, con proprie responsabilità, procedure e risorse messe in atto per il controllo e la sorveglianza delle IO a livello aziendale. L’apposito Comitato costituito, in staff alla Direzione Sanitaria Aziendale, all’interno delle aziende sanitarie ed ospedaliere, é il propulsore delle politiche di sorveglianza e controllo delle IO, promosse dall’azienda stessa. Opera in accordo con il nucleo di valutazione aziendale, il nucleo di valutazione della Qualità ed il Risk Manager. Il Comitato, in questa nuova rivisitazione organizzativa, dovrà, oltre agli altri compiti di istituto, sviluppare interventi di MCQ e di risk management nei settori sanitari dell’Azienda USL ed ospedaliera, sotto la responsabilità del Presidente del CIO (generalmente un Direttore Sanitario di presidio ospedaliero con comprovata esperienza e formazione nel settore). Di seguito é rappresentato un organigramma che illustra i “nuovi” rapporti. Il CIO è l’organo multidisciplinare di coordinamento per la pianificazione di efficaci strategie di lotta contro le I.O., con la responsabilità di: o definire le linee di intervento per contrastare le infezioni ospedaliere; o predisporre i piani annuali di intervento a livello aziendale; o verificare l’attuazione dei programmi di sorveglianza e controllo e la loro efficacia; o valutare i metodi e l’operatività in atto per il controllo delle infezioni professionali del personale dell’Azienda Ospedaliera; o redigere relazione annuale da trasmettere al Direttore Generale nella quale si riporta la sintesi delle attività svolte, i risultati raggiunti e le risorse impegnate. Il Direttore Sanitario di azienda designa quali membri del comitato, professionisti del settore medico ed infermieristico, con comprovata esperienza nell’ambito delle IO, ed esperti dell’area tecnico-patrimoniale e logistica-alberghiera. Composizione del Comitato Tutti i paesi che hanno avviato programmi di controllo delle IO, hanno individuato come soluzione organizzativa capace di assicurare omogeneità e qualità d’interventi, la creazione di un Comitato multidisciplinare a livello ospedaliero. Il CIO é, di fatto, un organo di consulenza del direttore medico di presidio che conserva funzioni di coordinamento e controllo del Comitato medesimo, essendo responsabile dello sviluppo di aree progettuali aziendali come “ il programma di prevenzione e controllo delle infezione ospedaliere”. L’attività del CIO inoltre, nel suo complesso, é parte integrante dell’igiene ospedaliera stessa, per il suo interesse nella patogenesi delle IO, e la sua conoscenza degli interventi e dei settori a rischio. La Circolare ministeriale relativamente alla composizione del Comitato: non precisa le funzioni del gruppo operativo ma indica solo quelle dell’infermiere addetto al controllo; L’ esperienza fatta già sul campo dai CIO nazionali e di altri paesi, ha fornito chiare indicazioni per un’efficace applicazione della circolare ministeriale, in particolare: includere nel Comitato un rappresentante dell’amministrazione; includere sempre un rappresentante del Servizio di farmacia, anche in presenza di un farmacologo clinico, per l’importanza di questo servizio nella pianificazione di un programma di controllo; prevedere la presenza di membri occasionali, per la discussione di temi specifici; limitare il numero dei componenti del gruppo operativo ed affidare ad un medico, di area igienistica, oltre che ad un’infermiera, la responsabilità di gestire il programma di controllo delle infezioni; separare le funzioni del Comitato da quelle del gruppo operativo. Il Comitato ha solo compiti d’ indirizzo e sorveglianza, non deve ad es. occuparsi della definizione di protocolli assistenziali o della messa a punto di protocolli operativi. Questi compiti competono al gruppo operativo che li deve assolvere su mandato e rispondendone al Comitato; gli interventi operativi vanno portati avanti da un medico igienista e da uno o più infermieri addetti. Il “nuovo” Comitato Il CIO é composto da operatori sanitari e non, di diversa estrazione professionale che abbiano maturato competenze professionali relative ai seguenti campi: – epidemiologia descrittiva, analitica e clinica; – statistica per la definizione di piani di campionamento, elaborazione e interpretazione di dati, gestione sistemi informativi, ecc.; – organizzazione e metodologie d’analisi organizzativa, necessarie per comprendere la realtà organizzativa entro la quale si opera e per effettuare “diagnosi organizzative” e individuare eventuali correttivi che si rivelassero necessari; – economia sanitaria per la valutazione costi/benefici; costi/efficacia; costi/utilità; analisi per centro di responsabilità; budgeting; – comunicazione e gestione di piccoli gruppi; strategie di superamento delle resistenze al cambiamento; ecc.; – formazione e tecniche per l’individuazione di bisogni formativi; definizione di obiettivi educativi; pianificazione di sistemi di valutazione; ecc. Il Comitato é composto: direttore sanitario di presidio (con la qualifica di presidente) esperto di igiene (responsabile del nucleo operativo) esperto di malattie infettive funzionario scelto nel settore epidemiologico-informativo; esperto nel settore della valutazione della qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie; esperto dell’assistenza infermieristica; infermiere eepidemiologo; esperto dell’assistenza farmaceutica esperto della diagnostica strumentale medici nominati dai responsabili di dipartimento; funzionario della carriera amministrativa, con funzioni di segretario. Ma se il CIO è l’organo pensante: “il cervello”, chi è che traduce in azione il suo pensiero? A tale funzione assolve il Gruppo Operativo (GO), organo “snello”, con mandato forte,
capace di osservare e raccogliere le problematiche presenti nelle diverse realtà operative e di tradurle in informazioni e progetti utili alla pianificazione delle strategie di sorveglianza da proporre all’attenzione del CIO. Il GO è composto normalmente da un medico igienista dell’area della Direzione sanitaria di presidio, un esperto in malattie infettive, un esperto in microbiologia, infermieri particolarmente addestrati in materia (vedi PSN, 1 infermiere per 250 P.L.), un farmacologo clinico, o farmacista ospedaliero. Svolge prevalentemente attività di integrazione e collegamento tra le diverse realtà ospedaliere. È peculiarità del Gruppo dialogare e agire a 360° in ambito aziendale, assolvendo al compito di feed-back tra i diversi protagonisti: CIO e reparti, Servizi e CIO, professionisti di area sanitaria e operatori di aree tecnico- amministrative, etc., promuovendo il colloquio tra le diverse parti. Il Gruppo, inoltre, è diretto interlocutore con istituzioni pubbliche sanitarie nazionali, regionali e locali (Aziende sanitarie Locali, Istituto Superiore Sanità, Ministero della Salute, etc.) . Il GO, oltre ad essere strumento propositivo del Comitato, è anche organo esecutivo, poiché è sua funzione primaria e istituzionale mettere in atto i progetti pianificati e approvati dal CIO stesso, quali: indagini epidemiologiche, studi d’incidenza e prevalenza, elaborazione e stesura di protocolli: Isolamento, sanificazione e disinfezione e antisepsi in ospedale, prevenzione, diagnosi e terapia delle infezioni associate all’uso di cateteri vascolari, procedure igienico-sanitarie in odontostomatologia, etc. informazione e formazione valutazioni igienico-comportamentali (periodiche) nei blocchi operatori , nelle sale di odontoiatria etc. gestione di eventi epidemici collaborazione con i gruppi di lavoro istituiti ad hoc dal CIO: gruppo sterilizzazione, gruppo profilassi chirurgica, etc. Differenze rilevanti si notano rispetto alla composizione del gruppo operativo con altri paesi, come USA e GB dove questo é formato da due persone, un medico e un infermiere. L’ampiezza del gruppo può limitare la sua reale operatività, ostacolando la frequenza degli incontri e rendendo più difficile l’attribuzione di specifiche responsabilità. Il gruppo operativo partecipa alle riunioni del Comitato. La responsabilità della realizzazione degli interventi compete al gruppo operativo. La struttura funzionale é perciò articolata a due livelli: il Comitato, che ha funzioni di programmazione, organizzazione e controllo, ed un ristretto gruppo operativo, facente parte integrante del Comitato, che é responsabile dell’attuazione degli interventi, della messa in opera quotidiana dei protocolli stabiliti per la strategia globale decisa dal Comitato. La presenza di infermieri addetti al controllo delle IO nel gruppo operativo e nel Comitato é di rilevante importanza sia per l’applicazione della strategia che per la verifica della sua corretta messa in opera. 2. Articolazione organizzativa – Comitato CIO 2.1 E’ definita l’articolazione organizzativa del Comitato CIO. Bisogna sempre tenere presente il numero del personale presente prima di determinare il numero totale di individui da includere nel comitato/nucleo. E’ importante includere personaggi influenti sul piano accademico o politico: se non possono garantire una partecipazione continua allora possono partecipare in modo part-time La definizione dei compiti/autorità del Comitato viene rivista ed approvata ogni due anni dall’amministrazione. Il Comitato formula ed approva i criteri per definire le infezioni ospedaliere. Le responsabilità degli interventi stabiliti dal Comitato vengono assegnate e definite per iscritto È documentata l’attività di ricerca svolta, completa di lavori pubblicati su riviste e di presentazioni a convegni (locali, nazionali, internazionali) da parte dei componenti del Comitato. Il Comitato effettua riunioni periodiche e/o programmate (con relativa documentazione: verbale ed elenco dei partecipanti). Il Comitato si riunisce almeno una volta ogni tre mesi Sono documentate le principali attività svolte dal Comitato negli ultimi 12 mesi (formazione del personale, counselling alle unità operative/dipartimenti, elaborazione protocolli/linee guida, sorveglianza) 2.2. All’interno della Comitato CIO è prevista la figura dell’infermiere epidemiologo (figura con speciale conoscenza, interesse ed esperienza nel controllo delle infezioni). Sono enunciate chiaramente le sue funzioni/responsabilità. Si dedica a tempo pieno alla sorveglianza, prevenzione e controllo delle IO. 2.3. È definita l’articolazione organizzativa del Nucleo Operativo che si occupa stabilmente delle infezioni ospedaliere (tipologia delle diverse figure professionali, funzioni, responsabilità). È nominato il responsabile del Nucleo Operativo e ne è definito la qualifica e l’indirizzo (Tel. – Fax – E-mail). Le figure addette dovranno aver ricevuto educazione, formazione e tirocinio relativi alla sorveglianza, prevenzione e controllo delle IO. È assicurata 24h/24h l’operatività dell’infermiere epidemiologo, del medico di Direzione Sanitaria e di medici specialisti (microbiologo, infettivologo, etc.). 2.4. Per ogni Unità Operativa, andrà formalizzato l’obbligo per la individuazione, di un medico e di una figura infermieristica, referenti per le problematiche collegate alle IO. 2.5 Il laboratorio, soprattutto microbiologico e sierologico, dovrà assicurare un adeguato supporto: servizio sierologico 6 giorni la settimana: servizio microbiologico 7 giorni la settimana: attività di striscio, microscopia e isolamento 24 ore su 24 2.6. Saranno costituiti gruppi di lavoro tra operatori delle diverse Aree Dipartimentali per la definizione di protocolli/procedure tecniche operative comuni. 2.7. Il Comitato CIO si è attivato sui piani per la gestione del rischio biologico fornendo informazioni agli operatori e agli utenti. Regolamento Il CIO sceglie ed elabora le strategie, le attua e le fa rispettare a tutto il personale ospedaliero/aziendale nonché ai degenti, pazienti ambulatoriali, visitatori ed altri. Il Comitato si riunisce almeno una volta ogni tre mesi e, ogni qualvolta fatti o pericoli contingenti e imprevedibili lo giustifichino; invia al Direttore Sanitario e Generale Aziendali i verbali delle riunioni per l’adozione degli opportuni provvedimenti del caso. I membri del CIO sono tenuti al riserbo e le discussioni in seno allo stesso sono coperte dal segreto professionale. Nello svolgere il ruolo di prevenzione e di lotta contro le IO, le azioni del CIO devono essere caratterizzate da un alto contenuto educativo ed avere una funzione d’aiuto a tutte le UU.OO. aziendali (Servizi e Divisioni dell’Ospedale e del territorio), nonché di sviluppo delle pratiche di igiene. Per svolgere la sua attività di prevenzione e/o di pronto ed efficace intervento, il CIO deve essere tenuto costantemente informato dalla situazione per mezzo delle richieste/analisi di laboratorio. Oltre al ruolo precedentemente descritto la Commissione esercita le seguenti funzioni: Funzioni del Comitato La Circolare ministeriale non indica modalità raccomandate di funzionamento. Riconosce ampia discrezionalità al fine di adeguare gli interventi alle necessità locali.. Il CIO, va precisato, assume nelle istituzioni in cui opera un ruolo di riferimento e guida per tutte le attività di sorveglianza, controllo e prevenzione delle infezioni. Nell’esperienza inglese le funzioni del CIO sono esplicitate da linee guida che indicano il Comitato responsabile di: definire annualmente in piani di lavoro gli obiettivi da raggiungere e le risorse per ciò necessarie; controllare le attività che il gruppo operativo, su mandato del Comitato, sta portando avanti; valutare, al termine dell’anno, lo stato di attuazione degli interventi. La Joint Commission on Accademy of Hospital ha proposto una serie di standard che, indipendentemente da quali che siano i tipi di attività intraprese da un Comitato, sono in grado di monitorare, nel tempo la sua efficienza. Tra questi vanno sottolineati: la necessità che il Comitato si riunisca almeno quattro volte l’anno, per pianificare le attività e l’avanzamento degli interventi; la pubblicizzazione dei lavori del Comitato. I verbali delle riunioni vanno sempre inviati almeno ai responsabili dei dipartimenti, delle UU.OO. ed ai caposali, sollecitando commenti o suggerimenti; le decisioni adottate devono essere portate a conoscenza di tutti gli operatori interessati; la revisione di politiche e protocolli attuata per due volte nel corso dell’anno. Autorevoli fonti concordano nell’affermare che per conservare nel tempo validità alle raccomandazioni espresse il Comitato debba procedere alla loro revisione almeno con ritmo annuale. L’indicazione della costituzione del Comitato é annoverata tra le misure “fortemente raccomandate” dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) per la prevenzione delle IO Le attività da sviluppare per ogni singola funzione sono di seguito riportate. A. Formazione formazione di base (infermieristica e medica) – promozione culturale sulle problematiche inerenti le IO ed il rischio biologico; progettazione, messa in opera e valutazione di corsi di formazione per: referenti unità operative; dirigenti 1 e 2 livello; personale infermieristico; personale aausiliario e tecnico; diffusione e promozione di informazioni relative ad iniziative di aggiornamento (convegni, congressi, ecc.) su tematiche specifiche mirate a: diffondere i risultati delle attività svolte tra il personale e tra gli utenti; raccogliere suggerimenti da parte di interlocutori istituzionali; fornire gli elementi per la promozione del l’immagine aziendale; collaborazione alla definizione ed analisi delle iniziative di formazione ed aggiornamento obbligatorio al fine di introdurre, quando possibile, moduli relativi alle IO; istituzione di un centro di documentazione con articoli, pubblicazioni e biblIOgrafia sulle iniziative inerenti le IO; partecipazione dei suoi componenti, quali docenti, alla formazione; promuove la diffusione dei risultati degli interventi realizzati, anche mediante l’utilizzo di “media” (bacheche e fogli informativi). B. Coordinamento inventario delle iniziative aziendali relative alle IO; convocazione periodica del CIO; invio al direttore generale e sanitario di azienda di un report trimestrale con le rilevazioni riguardanti la sorveglianza; coordinamento dei gruppi di lavoro istituiti al fine di omogeneizzare gli interventi su medesimi temi, modalità di lavoro, metodologie e strumenti di valutazione; comunica i risultati raggiunti ai coordinatori di dipartimento; invia la relazione annuale sullo stato di attività del CIO contenente informazioni sul raggiungimento degli obiettivi prefissati, sui problemi aperti e sui problemi prioritari da affrontare al direttore di presidio per l’invio al direttore generale. C. Collaborazione svolge funzione di staff verso il direttore medico di presidio; supporto metodologico alle attività di sorveglianza e controllo delle IO in tutte le fasi (definizione del problema, scelta delle priorità, definizione ed esplicitazione di criteri e standard; definizione degli strumenti di rilevazione; elaborazione statistica dei dati; ecc.); partecipazione diretta (a richiesta) ai gruppi di lavoro; valutazione dei progetti delle UU.OO. e/o dipartimenti; collaborazione e relazioni istituzionali; D. Progettazione. ricognizione dei problemi connessi alle IO nell’azienda; progettazione – messa in opera – valutazione di specifici studi (di seguito sono elencate una serie di iniziative che si ritiene debbano essere comunque avviate in tutti i presidi ospedalieri delle aziende sanitarie): studi di appropriatezza d’uso (es.: ammissioni e giornate di degenza; ammissioni ed uso day hospital, ricoveri impropri; sangue e derivati; antibiotici; impiego tecnologie strumentali ad alto rischio; richieste esami di laboratorio); qualità documentazione clinica (es. annotazione procedure a rischio, etc.); qualità dei dati e dei relativi flussi (SDO; DRG; sistemi di indicatori; ecc.); qualità sistemi di sorveglianza sulle IO; incidenti critici; esposizioni accidentali degli operatori sanitari; soddisfazione utenti; soddisfazione operatori collaborazione alla stesura ed al monitoraggio del piano aziendale alla lotta e controllo delle IO e della relativa allocazione di risorse; assegnazione alle uu.oo. degli obiettivi a lungo, medio e breve termine;identificazione dei requisiti e degli indicatori di valutazione del sistema di controllo e sorveglianza delle IO attivati a livello delle UU.OO. e dei dipartimenti anche alla luce delle evoluzioni organizzative (D.H., degenze chirurgiche brevi, etc.). promuovere la collaborazione con le realtà territoriali (ASL, medici di base, A.D.I.) nei sistemi di sorveglianza e di prevenzione (infezioni post dimissioni, autosomministrazione terapie antibiotiche, etc.). definizione del sistema di incentivazione legati alla partecipazione a programmi di sorveglianza e controllo delle IO; facilitazione a livello ospedaliero ed extraospedaliero di revisione tra pari; monitoraggio del livello di adesione del CIO o di alcune uu.oo. e/o dipartimenti della struttura agli eventuali standard di accreditamento relativi alle IO; propone alla Direzione aziendale la nomina dei componenti del CIO; revisione della propria attività; vigilanza sul rispetto delle linee guida. E. Ricerca S’indicano solo alcuni possibili temi di ricerca da sviluppare anche in collaborazione con altri Comitati di altre Aziende, Università, organismi istituzionali (es. Istituto superiore di Sanità) e Società Scientifiche e Professionali: programmi per la produzione ed implementazione delle linee guida; analisi e confronti di indagini epidemiologiche effettuate nell’ambito dei propri ospedali, ecc. Referenti Comitato CIO delle unità operative Sono individuati dai responsabili medici delle diverse UU.OO., tra gli operatori che mostrano interesse all’argomento. Tale figura oltre ad una discreta esperienza professionale assicura l’indicazione delle migliori evidenze scientifiche disponibili relativamente all’accuratezza, alla potenza ed all’efficacia dei trattamenti preventivi e delle procedure assistenziali. E’ opportuno che tale compito venga assegnato a rotazione ai membri dell’U.O. La stessa procedura è prevista per il personale infermieristico. Funzioni: traduzione nelle proprie realtà delle politiche di IO dell’azienda; individuazione di problemi relativi alle IO inerenti la propria U:O:; promozione e realizzazione di interventi nelle proprie realtà; verifica dei risultati dei processi di lavoro e sull’appropriatezza nell’utilizzo delle risorse; predisposizione di linee guida di buona pratica e monitoraggio delle stesse mediante eventi sentinella. Gruppi di lavoro (mono/multidisciplinari, permanenti/ temporanei) Sono i nodi della rete complessiva delle attività di controllo e sorveglianza delle IO Concorrono alla realizzazione di integrazione, mediazione e collegamento tra le UU.OO., e cooperano alla definizione di programmi di sorveglianza. Sono previsti diverse tipologie di gruppi di lavoro professionali: gruppi di lavoro multidisciplinari permanenti su specifici problemi (ad es. infezioni chirurgiche., delle vie urinarie; uso antibiotici; uso disinfettanti, sterilizzazione, aspetti strutturali; ecc.); gruppi di lavoro temporanei costituiti ad hoc su specifici problemi; gruppo di dipartimento e/o unità operativa. Ogni gruppo dovrebbe essere costituito da 5-7 membri, sostituiti ogni due anni per assicurare una partecipazione elevata, e dovrebbe: avere un regolamento che precisi modalità di nomina e rinnovo dei suoi membri, finalità, attribuzioni e modalità di funzionamento; fissare ogni anno almeno due obiettivi collegati alle IO; riunirsi almeno quattro volte l’anno; tenere i verbali delle riunioni; presentare ogni anno una relazione sull’attività svolta. Tipologia e frequenza di specifiche localizzazioni di infezioni ospedaliere Le IO si distribuiscono in quattro principali localizzazioni che rappresentano circa l’80% di tutte le infezioni osservate: il tratto urinario, le ferite chirurgiche, l’apparato respiratorio, le infezioni sistemiche (sepsi, batteriemie). Tra queste le più frequenti sono le infezioni urinarie, che da sole rappresentano il 35-40% circa di tutte le infezioni osservate. L’importanza relativa, dal punto di vista clinico, di ciascuna localizzazione di infezione varia nei diversi reparti ed in diversi sottogruppi di pazienti. Il sistema di sorveglianza delle infezioni in corso dagli anni 70 negli Stati Uniti noto come NNIS (National Nosocomial Infectio Study), che descrive la frequenza di infezioni nel tempo e per specifici gruppi di pazienti, ha rilevato negli ultimi quindici anni un cambiamento nella frequenza relativa delle localizzazioni di infezioni e della loro incidenza. Infatti, all’inizio degli anni 80 le infezioni urinarie rappresentavano il 40% delle IO rilevate, le infezioni della ferita chirurgica il 20%, le polmoniti il 16% e le batteriemie il 6%. Nel 1990 la distribuzione di queste infezioni era la seguente: infezioni urinarie 35%, infezioni della ferita chirurgica 18%, polmoniti 16%, batteriemie 11%. Come si può osservare particolare attenzione va rivolta alle infezioni sistemiche che stanno diventando via via più frequenti, come conseguenza di un graduale aumento dei fattori di rischio responsabili di queste infezioni, quali le condizioni di rischio intrinseco del paziente, l’uso di antibiotici e di cateterismi intravascolari. Altro studio disponibile in letteratura che valuta la frequenza e l’incidenza a livello Nazionale delle infezioni nosocomiali é rappresentato dallo Study on the Efficacy of Nosocomial Infectio Control (SENIC) condotto negli ospedali statunitensi. Da questo studio deriva il dato di incidenza di pazienti infetti pari a 5,2% e quello delle infezioni pari al 6.6%. In Italia dal 5 al 9% dei pazienti ricoverati contrae una IO; Ogni anno in Italia si verificano quindi dalle 450.000 alle 700.000 infezioni in pazienti ricoverati in ospedale (soprattutto infezioni urinarie seguite da infezioni della ferita chirurgica, polmoniti e sepsi) Poiché le IO potenzialmente prevenibili rappresentano il 30% circa di quelle insorte, sai può stimare che ogni anno si verificano dalle 135.000 alle 210.000 infezioni prevenibili, e che queste siano direttamente causa del decesso nell’1% dei casi (dai 1350 ai 2100) decessi circa prevenibili in un anno. Gli studi condotti in Italia nel corso degli anni ’80 hanno rilevato che il numero di infezioni nosocomiali é inferiore rispetto alla media europea, ciò é probabilmente da attribuire a differenze di popolazione ricoverata ed a carenze diagnostiche, piuttosto che ad un minor rischio di contrarre un’IO. Ammalarsi in ospedale per colpa delle infezioni che si contraggono mentre ci si cura non è un evento raro: ogni anno in Italia il 10% dei pazienti ricoverati per una qualsiasi patologia prolunga la sua degenza proprio per questo motivo; e si stimano almeno 6-7000 morti direttamente collegate ad esse, la metà delle quali evitabili. Nel nostro paese sono registrati tra i 500 e 700 mila casi l’anno di infezioni ospedaliere, il cui peso sul bilancio della sanità pubblica ammonta a circa 2000 miliardi”. Con i metodi attualmente disponibili si potrebbe prevenire almeno il 30% delle infezioni (tra le 150 e le 210 mila) e di evitare 2000 decessi l’anno. Nel 1988 l’Istituto Superiore di Sanità condusse un’indagine sulla diffusione dei programmi di sorveglianza e controllo delle IO, con bassa rispondenza (34%). Dall’indagini emerse che: il 14,2% degli ospedali campionati aveva attivato il Comitato, (di cui più di un terzo non si era mai riunito nel corso dell’anno); la diffusione dei comitati di controllo aumenta all’aumentare delle dimensioni dell’ospedale. l’11,5% si era dotato di un proprio referente medico l’8% di una figura infermieristica dedicata (di cui solo il 20% impiegata a tempo pieno nei programmi di controllo); L’8,7% degli ospedali aveva definito uno o più protocolli; A distanza di più di 10 anni da quest’ultima indagine nazionale, l’ISS ha proceduto ad effettuare analoga indagine (con alta rispondenza 80%) conoscitiva che ha dato i seguenti risultati: il 73,8% degli ospedali hanno attivato il CIO, ma solo il 50% è in attività; i comitati sono costituiti in media da 12,2 componenti; il 59% hanno dichiarato di disporre di un medico referente, ma solo nel 43% dei casi tale figura è effettivamente operativa. Il 51% hanno dichiarato di disporre di un’infermiera addetta al controllo, di cui solo il 33% impiegata nel programma di controllo L’analisi dei dati mette in evidenza quanto segue: 1. una disomogeneità territoriale con svantaggio globale del sud d’Italia e delle isole rispetto al nord-centro nell’istituzione/organizzazione dei programmi suddetti; 2. una differenza, talora sostanziale, tra le proporzioni di presidi che hanno dichiarato di aver attivato quella specifica componente dei programmi e quelle in cui tale componente appare essere effettivamente attiva Il rapporto elaborato dall’Istituto Superiore di Sanità conclude sottolineando l’urgenza di interventi sui seguenti aspetti: 1. Attivare i requisiti minimi raccomandati dal Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 (comitato, figure addette, protocolli scritti) in tutte le regioni e ospedali in cui ciò non si è ancora verificato e utilizzare la loro esistenza come criterio per l’accreditamento delle strutture. Ciò è particolarmente urgente negli ospedali che ospitano reparti a rischio quali la chirurgia e la terapia intensiva. 2. Definire le dotazioni di personale (sia medico che infermieristico) per posto letto necessario per la gestione dei programmi di controllo, assicurare la presenza della dotazione necessaria in tutti gli ospedali e attivare programmi specifici di queste figure. 3. Stimolare in tutti gli ospedali l’avvio di programmi di sorveglianza a partire dai laboratori che abbiano l’obiettivo di identificare i patogeni sentinella, gli eventi epidemici e di monitorare l’antibioticoresistenza. A tale scopo, appare utile sperimentare programmi informatizzati di gestione dei dati di laboratorio, utilizzabili per la sorveglianza di questi eventi. 4. Rendere operanti nei reparti di terapia intensiva e nei reparti chirurgici sistemi di sorveglianza attiva sulla base di indicatori clinici e definire protocolli di buona pratica clinica in questi reparti. 5. Promuovere la definizione di protocolli mirati non solo alle attività di “igiene ospedaliera” (sterilizzazione, disinfezione, sanificazione, ecc.), ma anche e soprattutto al miglioramento degli standard assistenziali clinici. 6. Promuovere l’effettiva diffusione dei protocolli in ospedale e la valutazione dell’adesione da parte degli operatori. 7. Attivare in tutti i presidi programmi di vaccinazione degli operatori e di sorveglianza delle infezioni occupazionale. 8. Promuovere una maggiore diffusione di politiche ospedaliere per il buon uso degli antibiotici, con particolare riguardo all’attivazione di sistemi di monitoraggio dei consumi di antibiotici in “Defined Daily Dosage”. 9. Riutilizzare le risorse in ambito microbiologico ambientale in attività di dimostrata costo-efficacia. 10. Rilevare dati sulle attività di sorveglianza e controllo anche in strutture sanitarie private, con particolare attenzione a quelle accreditate. Tipi di infezioni Normalmente, siti di sviluppo dell’infezione possono essere i polmoni, i siti di inserzione di un catetere, il tratto urinario, le ferite (comprese quelle chirurgiche e da decubito). Le infezioni possono avere origine da: flora batterica già presente nel paziente (infezione endogena primaria, ad esempio quella data da Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae, Escherichia coli). un microorganismo che proviene da un’altra zona del corpo del paziente (infezione endogena secondaria come quella causata da Acinetobacter spp, Serratia spp, Klebsiella). microorganismi (Staphylococcus) provenienti dall’ambiente esterno: infezione esogena Nei diversi studi sono stati identificate diverse decine di microorganismi appartenenti a generi diversi. Tra i fattori di rischio per le IO vengono identificati: tubi endotracheali respirazione artificiale e immobilità cateteri urinari e venosi alto uso di antibiotici che può causare resistenza batterica e crescita di microrganismi fungini inoltre concorrono a costituire rischio: alta densità di malati in corsia e nei reparti di cura intensiva tutte le operazioni svolte in preparazione preoperatoria (la tricotomia è uno dei più importanti fattori di rischio), durata dell’intervento fattori intrinseci del paziente: l’età, l’obesità, il diabete, la gravità della malattia, la generale situazione immunitaria che può essere compromessa anche per l’insorgenza di altre malattie e/o di malnutrizione Le infezioni ospedaliere più studiate vengono solitamente classificate in: ISC = infezioni del sito chirurgico (ad esempio, nei pazienti cardioperati queste sono le infezioni più frequenti, seguite da batteriemie e polmoniti.) batteriemie polmoniti infezioni delle vie urinarie (IVU) infezioni associate a catetere intravascolare centrale (CIC), Prevenzione e sorveglianza Il Piano Sanitario Nazionale 2002-04, finalizzato a “garantire la salute” del cittadino, pone l’accento sulla inderogabile necessità di portare il mondo sanitario verso un cambiamento improntato all’eccellenza, dove per eccellenza s’intende la massima espressione di qualità della assistenza erogata. E la qualità in ospedale, così come viene attualmente proposta, si misura attraverso specifici indicatori. Fra questi sono compresi i programmi di sorveglianza delle Infezioni Ospedaliere. I programmi di prevenzione e controllo delle I.O. per essere validi ed efficaci devono prevedere necessariamente, tra le attività di controllo, l’applicazione corretta dei processi di decontaminazione e sanificazione, rispondenti a precisi protocolli. Una recente indagine conoscitiva nazionale condotta dall’Istituto Superiore di Sanità sulle attività di sorveglianza e controllo delle I.O. negli ospedali pubblici, ha evidenziato che su 341 ospedali inclusi il 65,9% aveva predisposto un protocollo per la pulizia e sanificazione dell’ambiente e solo il 56,3% aveva attivato un protocollo per la sterilizzazione e disinfezione dei dispositivi medici. Alla luce di tali dati e viste le prospettive future, parlare oggi del ruolo che la decontaminazione e sanificazione hanno nei processi di sorveglianza delle I.O. è quanto mai doveroso e non è né inopportuno, né inutile, né anacronistico, né scontato, malgrado molti ritengano la loro conoscenza ormai consolidata nella cultura degli operatori sanitari. Conoscenza che, ad onor del vero, nel tempo è venuta a mancare, tant’è che spesso, oggi, gli stessi operatori preposti alla loro esecuzione le ritengono, ingiustamente, procedure “cenerentola” dell’igiene, a causa del loro “umile” ruolo alle quali sono state relegate negli anni passati. La necessità di garantire assistenza sanitaria con un elevato grado di sicurezza dal rischio infettivo per gli operatori sanitari e i pazienti, in considerazione degli attuali scenari epidemiologici locali, dell’introduzione di nuove tecnologie in campo sanitario, delle realtà socio-economiche e delle aspettative di vita dei cittadini ha fatto sì che esperti della materia studiassero il problema e cercassero le possibili soluzioni. I risultati raggiunti hanno permesso una totale rivalutazione del ruolo di tali procedure collocandole fra gli interventi indispensabili per lo svolgimento di programmi di prevenzione delle I.O. efficaci ed appropriati. Il costo delle I.O (aumento delle giornate di degenza, oneri assicurativi, etc.) che gravano fortemente sul bilancio economico delle aziende ospedaliere ha indotto molti amministratori sanitari ad attivare interventi di contenimento del fenomeno infettivo per limitare i danni economici attivando mirati programmi di controllo, comprensivi della riorganizzazione delle attività di decontaminazione e sanificazione. La legislazione sanitaria italiana stabilisce l’importanza di tali procedure con le diverse norme emanate nel tempo. Il Decreto Legge 28 settembre 1990 emanato dall’allora Ministero della Sanità è forse il decreto maggiormente conosciuto fra gli operatori del settore, in quanto oltre che disporre dell’applicazione di norme per la protezione dal contagio professionale con l’art.2, che cita: “i presidi riutilizzabili debbono, dopo l’uso, essere immediatamente immersi in un disinfettante chimico di riconosciuta efficacia sull’HIV prima delle operazioni di smontaggio e pulizia, da effettuare come preparazione per la sterilizzazione”, fissa l’obbligatorietà della decontaminazione. L’entrata in vigore del D.Lgs 46/1997 che ha recepito la normativa europea 93/42 sui dispositivi medici con la norma UNI EN 554 punto 4 stabilendo i requisiti obbligatori per la convalida e il controllo sistematico della sterilizzazione a vapore umido, conferma ancora una volta il ruolo determinante della decontaminazione e della sanificazione per l’abbattimento della carica batterica iniziale nel processo di sterilizzazione. Anche in ambito internazionale il problema sanificazione e decontaminazione è fonte di continui studi tanto è che sia i Centers for Diseases Control, sia l’organizzazione governativa statunitense Joint Commission for Accreditation of Hospitals, agenzia deputata all’accreditamento degli ospedali, consideravano standard di valutazione la stesura e l’applicazione di specifici protocolli di decontaminazione e sanificazione già dagli anni 80, quando ancora in molti ospedali nazionali l’uso di tali procedure non era pratica quotidiana, nonostante le direttive ministeriali emanate in quegli anni (C.M. n. 52/1985). Per controllare e ridurre le infezioni ospedaliere, è necessario che le strutture agiscano su più fronti: l’attuazione di misure di prevenzione di controllo delle IO attraverso azioni sulle strutture ospedaliere, sui sistemi di ventilazione e sui flussi di acqua, sull’igiene del personale e dell’ambiente; l’individuazione di personale dedicato alla sorveglianza; un protocollo di sorveglianza attiva delle infezioni che si manifestano e un appropriato flusso informativo che permetta l’identificazione e la quantificazione delle infezioni stesse nei diversi presidi; la formazione del personale dedicato al trattamento dei pazienti, soprattutto nelle aree critiche di terapia intensiva e chirurgica, e di quello dedicato alla raccolta e analisi dei dati. Uno dei problemi relativi alle IO è la loro identificazione, classificazione e quantificazione. Per cercare di risolvere questo aspetto, sono state messe a punto definizioni di caso dai CDC americani ma anche da programmi europei come Helics e Earss. Negli Stati Uniti e nel nord Europa esiste un sistema di controllo e sorveglianza mentre nel nostro paese questo sistema non è ancora operativo. Gli studi italiani hanno però rilevato che le caratteristiche epidemiologiche delle IO individuate sono simili a quelle descritte dal sistema americano, il National Nosocomial Infections Surveillance System (NNIS), che costituisce quindi un valido punto di riferimento. In Italia, Il Ministero della Sanità ha emanato due Circolari Ministeriali, (la n. 52/1985 e la n. 8/1988) nelle quali vengono definiti i requisiti di base dei programmi di controllo e viene costituito un comitato di controllo per la lotta alle infezioni in ciascuna struttura ospedaliera con la disponibilità di un’infermiera dedicata principalmente ad attività di sorveglianza e controllo. La riduzione dell’incidenza di infezioni ospedaliere di almeno il 25 per cento rientrava poi tra gli obiettivi prioritari del Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 (PSN), che faceva espresso riferimento alle IO delle vie urinarie, della ferita chirurgica, alle polmoniti postoperatorie o associate a ventilazione meccanica e alle infezioni associate a cateteri intravascolari. Questo obiettivo doveva essere raggiunto con l’avvio di un programma di sorveglianza, prevenzione e controllo delle IO in ogni presidio ospedaliero, che focalizzi l’azione sia sui pazienti che sugli operatori sanitari. Nonostante queste misure, in Italia non è però ancora stato attivato un sistema di sorveglianza nazionale (ossia una rilevazione corrente dei casi di infezione ospedaliera). Uno dei problemi individuati da alcuni studi (come il dossier tecnico della Regione Emilia Romagna) è la carenza di personale dedicato ai sistemi di rilevazione e identificazione. Negli Stati Uniti e nei paesi del Nord dell’Europa, questa attività è svolta dalle cosiddette “Infection Control Nurses” (infermiere addette al controllo delle infezioni ospedaliere). Negli ospedali del NNIS, ad esempio, esiste una figura dedicata che può essere un’infermiere ma anche un microbiologo, un medico o un epidemiologo, che raccoglie i dati, li interpreta, li comunica al network tramite un database, identifica i problemi, e attua misure di prevenzione. L’indicazione data dal NNIS è di avere almeno una persona dedicata ogni 250 pazienti per ogni presidio. Aspetti medico legali delle infezioni ospedaliere Tutte le attività mediche e del personale sanitario in genere, in quanto strettamente connesse alla cura della persona umana, comportano implicazioni non trascurabili di natura medico -.legale. Le infezioni ospedaliere, ossia le “infezioni che insorgono durante il ricovero in ospedale o in alcuni casi dopo che il paziente è stato dimesso e che non erano manifeste clinicamente né in incubazione al momento dell’ammissione”, possono entrare nel campo d’interesse medico-legale quando vengano attribuite a responsabilità professionale. Sembra utile, prima di affrontare più dettagliatamente lo specifico argomento delle infezioni nosocomiali, richiamare per sommi capi i concetti generali della disciplina medico.-.legale, anche per poi inquadrare in un contesto meglio delineato le singole fattispecie che caratterizzano il problema in esame. Come è noto, sul piano giuridico la responsabilità dei medico può avere due connotazioni: penale e civile. Nella prima sono ricompresi i reati di natura ovviamente colposa (omicidio e lesioni), cioè quelli connessi per negligenza, imprudenza, imperizia, o inosservanza di leggi, regolamenti, ordine o discipline. Per effetto della seconda, in base a quanto sancito dal codice civile, il medico come chiunque altro è inoltre tenuto a risarcire il danno eventualmente cagionato al paziente con il proprio operato. Evidentemente anche una infezione, sia essa di natura endogena o esogena, instauratasi durante la degenza o anche poco dopo la dimissione, se riconducibile a comportamenti, omissioni, negligenze, etc. dei personale ospedaliero, può assumere la configurazione di un reato di lesioni personali colpose e/o dare vita al diritto soggettivo dei paziente ad ottenere il risarcimento dei danno ingiustamente patito. Vediamo ora analiticamente quali sono le tipologie di lesioni che configurano automaticamente, ai sensi dell’art. 590 cod. pen., un reato perseguibile d’ufficio e non soltanto quindi a querela della persona offesa. La “classificazione” fatto dal codice prevede le lesioni cosiddette gravi: – in caso di malattia che metta in pericolo la vita o una incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni, se ne deriva l’indebolimento permanente di un senso o di un organo, oppure se le lesioni provocano l’anticipazione dei parto, e le lesioni personali gravissime: – se la malattia è certamente o probabilmente insanabile, oppure se dal fatto deriva la perdita di un senso o di un orto o una mutilazione che renda l’orto inservibile, la perdita dell’uso di un organo, della capacità di procreare, o provocare una permanente e grave difficoltà’ della favella, la deformazione o lo sfregio permanente del viso, l’aborto della persona offesa. Orbene fortunatamente nella pratica clinica sono assai rari i casi in cui da una infezione ospedaliera derivino complicanze quali quelle elencate dal codice penale, ivi compreso l’eventuale decesso dei paziente, e sarà oggetto di un successivo articolo entrare nel dettaglio di una casistica su tale tema. Giova però, nel chiudere questa disamina di carattere generale, sottolineare un ulteriore ma di certo non trascurabile dovere medico – legale, anch’esso inevitabilmente connesso al problema delle infezioni ospedaliere: quello dell’obbligo di referto. In base a quanto disposto dall’art. 365 cod. pen., il medico ha il dovere di comunicare all’autorità giudiziaria i casi in cui ha prestato la propria assistenza e che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio. Potrebbe quindi in astratto determinarsi la situazione di un paziente che, avendo contratto nel corso della degenza una infezione nosocomiale, vada incontro a causa di questa a complicazioni che integrino il reato di lesioni gravi o gravissime, o che addirittura ne provochino l’exitus. In tal caso scatterebbe automaticamente per i medici intervenuti con la loro opera l’obbligo di presentare il relativo referto entro le 48 ore da quando ne sono venuti a conoscenza. Va ricordato che praticamente tutti gli studi epidemiologici condotti in tema di infezioni ospedaliere hanno evidenziato che la modalità più frequente con cui si trasmette un microrganismo ad un ricoverato è per contatto diretto, in primis attraverso le mani dei personale di assistenza e più di rado con il vestiario, lo strumentario medico, etc.. Da ciò si evince, data la predetto probabilità che l’insorgenza di un’infezione in un ricoverato posso essere causalmente ricondotta all’operato di medici e infermieri, che l’autorità inquirente potrebbe ipotizzare il reato di omissione di referto, laddove non sia stata tempestivamente informato su tale accadimento. Nell’eventualità che l’insorgenza di una infezione ospedaliera possa essere ricondotta ad un comportamento attivo od omissivo, e quindi alla responsabilità, del personale sanitario ed affinché questo addebito sia fondatamente motivato occorre che venga dimostrato uno stretto nesso causale, chiamato anche riferimento eziologico, tra l’operato del personale e la malattia nosocomiale contratta dal paziente. Non è sufficiente, quindi, l’associazione automatica degenza (o anche prestazione in Day-Hospital) più contagio, per sostenere l’ipotesi di una responsabilità professionale. Il ricovero può rappresentare una pura e semplice causa occasionale, giuridicamente irrilevante, dell’infezione, tenuto conto che il principio cronologico del post hoc, ergo propter hoc non basta certo a spiegare da solo il perché quella particolare forma morbosa si sia verificata. Nella pratica clinica la componente eziologica riconducibile al personale potrebbe quindi avere anche il carattere della mera concasualità, intervenire cioè assieme ad altri più o meno numerosi e rilevanti fattori nel determinismo dell’evento lesivo. Anche nell’ambito delle infezioni ospedaliere, del resto, al medico spetta il dovere professionale di garantire costantemente il proprio impegno e adeguata capacità, e non la risoluzione positiva di ogni aspettativa del paziente; vige cioè quella che in termini giuridici viene definita obbligazione di mezzi e non di risultato. In base a questo principio di carattere generale, la responsabilità contrattuale nei confronti degli assistiti impone pertanto al personale sanitario l’apprestamento diligente anche di tutte le procedure e i comportamenti atti a prevenire l’insorgenza di una infezione nosocomiale, così come si è normalmente impegnati sul versante diagnostico-terapeutico. In sede civilistica la responsabilità del fatto che ad un assistito sia stato cagionato “un danno ingiusto” (art. 2043 codice civile) e che di conseguenza scatti l’obbligo al risarcimento, può anche ricadere sull’ente ospedaliero e non direttamente sui suoi dipendenti. Senza entrare nei dettagli giuridici dei concetti di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, va osservato che nel caso delle infezioni ospedaliere possono evidentemente entrare in gioco cause indipendenti dall’operato del personale, ma addebitabili a carenze strutturali, a vetustà degli edifici, a deficit organizzativi o di organico. In queste situazioni i fattori strutturali assumono un rilievo concausale di tale peso da ridimensionare significativamente, sul piano giuridico, le eventuali responsabilità di singoli operatori. INFEZIONE POST-CHIRURGICA E RESPONSABILITA’ L’infezione chirurgica, numericamente diminuita in rapporto all’aumento del numero di pazienti esposti e spesso clinicamente più lieve, costituisce in ordine di frequenza l’evento sfavorevole più comune dopo l’intervento chirurgico e si pone al secondo posto assoluto nella distribuzione per localizzazione sito-specifico. La sua incidenza è molto variabile in relazione alla zona anatomica in cui si interviene, alla complessità e al grado di contaminazione. L’infezione del sito chirurgico può essere limitata all’incisione superficiale (cute e tessuti sottocutanei), alla sede di incisione profonda (tessuti molto profondi limitrofi all’incisione quali ad es. i muscoli) e/o coinvolgere qualsiasi organo o spazio che sia inciso o manipolato durante l’intervento che può essere classificato come pulito, pulitocontaminato, contaminato e sporco. L’infezione si ritiene in linea di massima cronologicamente correlata come causa alla fase chirurgica se si manifesta entro 30 giorni dalla data dell’intervento in assenza di impianto protesico (stadio I o precoce) e entro l’anno in presenza di impianto protesico o di altro corpo estraneo (stadio II o sub-acuto), attribuendo la responsabilità di quella più tardiva (stadio III) ad una contaminazione per via ematogena a seguito del passaggio in circolo di germi provenienti da focolai di sepsi. Altro evento sfavorevole in chirurgia, sia pure poco ricordato e di cui in letteratura esistono pochi esempi, è la trasmissione dall’operatore al paziente, peraltro statisticamente molto bassa, di infezioni quali l’epatite C, l’epatite B e la sindrome da immunodeficienza acquisita. L’insorgenza di infezione ovviamente non significa obbligatoriamente malattia infettiva. Il percorso metodologico si basa sulla individuazione dell’agente infettante, sull’accertamento che il contagio sia realmente avvenuto in ambiente ospedaliero, sulla verifica che in concreto si sia realizzato un danno effettivo alla salute e sulla sussistenza della causalità materiale tra l’agente biologico e il danno alla persona. Alla classica criteriologia in tema di nesso causale si deve associare, non potendosi soprattutto a distanza di tempo individuare il determinato fattore che ha veicolato l’infezione, il criterio della possibilità scientifica (nesso di causalità statistico o probabilistico). Rilevanza assume, la più ampia, di natura epidemiologica e il parere dello specialista infettivologo. A questo proposito si ricorda che la Cassazione penale nella sentenza n.1688/2000 sostiene un orientamento di segno opposto rispetto a quello contenuto nella sentenza n. 37/1992 – detta anche del 30% – quando afferma che il nesso di causalità nelle condotte mediche omissive deve essere accertato con probabilità vicino alla certezza. Nonostante sia in netto regresso, l’infezione post-chirurgica occupa un ruolo sempre più frequente, anche se ancora contenuto, nell’imputazione per responsabilità. Gli Istituti della responsabilità nel nostro ordinamento sono di natura contrattuale (tra paziente e struttura ospedaliera) ed extra-contrattuale per fatto illecito (tra medico ospedaliero non espressamente eletto dal paziente/cliente e paziente/cliente stesso); nel secondo caso la colpa deve essere dimostrata dal danneggiato ai sensi dell’art. 2043 codice civile e dell’art. 2336 codice civile. La Cassazione con sentenza n. 589/1999 ha però affermato che la cura prestata dal medico ha natura contrattuale in quanto che deriva da quel contatto sociale che lega il medico al malato essendo obbligatorio il suo intervento attraverso il quale lo Stato attua la tutela della salute del cittadino. Si deduce che il medico-debitore, il cui dovere di prevenire le infezioni si inserisce in quello più generale di tutelare la salute, deve dar prova ai sensi dell’art. 1176 codice civile di aver agito con la diligenza e la prudenza non più media ma qualificata e proporzionata alla natura della prestazione. L’unica difesa è dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il contagio, cioè ricorrere all’elemento imprevedibile da cui può derivare l’inevitabilità dell’insorgenza dell’infezione: il venir meno ai più elementari obblighi di diligenza costituisce, dal punto di vista medico-legale civilistico, una effettiva mancata obbligazionedi mezzi nella prestazione sanitaria, dato che la osservanza delle più basilari norme di prevenzione non implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà. La responsabilità penale nasce quando dall’attività consegue un reato previsto dal codice penale, quale la lesione personale colposa (ex art. 590 c.p.) e l’omicidio colposo (ex art. 589 c.p.). I principi di accertamento delle responsabilità e del nesso di causalità sono identici, ciò che cambia è l’onere della prova: il Pubblico Ministero deve dimostrare che esiste nesso di causalità tra condotta e infezione e che il danno deriva dal non aver adottato le cautele possibili. La condotta colposa è penalmente sanzionabile anche a titolo di colpa lieve. Le ipotesi di responsabilità da inquinamento da fattori biologici non sono quindi diverse da tutte le altre, di contro ogni singolo caso in quanto diverso dagli altri deve essere inquadrato per essere giudicato. Partendo dal presupposto fondamentale dell’asepsi durante l’intervento chirurgico, bisogna valutare quelle variabili sulle quali si può agire per ridurre l’insorgenza d’infezione, quali la diminuzione dei tempi operatori, la terapia antibiotica, l’utilizzo di materiali ad elevata compliance per l’organismo, la riduzione dei tempi di latenza dei presidi (es. tubo di drenaggio), così come bisogna evitare di cadere in errori essi stessi produttivi di infezioni, quale la dimenticanza di garze all’interno del paziente. E’ statisticamente dimostrato che la frequenza delle infezioni è in parte dipendente dall’esperienza del chirurgo. La profilassi antibiotica, il cui impiego deriva dalla necessità di contrastare l’insediamento batterico sul campo chirurgico inevitabile anche osservando le più accurate cautele di sterilità ambientale, è oggi riconosciuta come un fondamentale presidio terapeutico (omissioni nella prevenzione possono configurare imprudenza), da evitare l’abuso ingiustificato e da seguire le linee guida al fine di migliorarne l’uso improprio. Nella chirurgia ortopedica protesica o conservativa (es. frattura di collo di femore) la contaminazione è essenzialmente esogena per carenza di igiene dei tramiti cutanei e la presenza di un corpo estraneo aumenta la possibilità di infezione da parte di microrganismi anche a bassa patogenicità poiché la loro adesività alle superfici dei mezzi di sintesi e di impianto permette la realizzazione di una nicchia microbica resistente alle difese immunitarie e agli antibiotici. La produzione di “glicocalice” fa si che alcuni germi resistano e proliferino anche su materiali metallici, per cui viene meno il cosidetto potere autodetergente dei metalli: indispensabile una adeguata profilassi perioperatoria che tenga conto della realtà epidemiologica e dei profili di sensibilità peculiari del reparto in cui si attua. In assenza di difetti di tecnica è da considerarsi accidentale l’infezione per esposizione all’aria, sia pure brevissima, di impianto protesico dovuta a mancata cicatrizzazione della ferita con totale deiscenza per defedamento secondario (es. occlusione intestinale post-operatoria). Le infezioni che insorgono, quasi sempre endogene, in corso di trattamenti prolungati con immunosoppressori non appartengono alla patologia iatrogena. Da limitare gli interventi vascolari, generalmente chirurgia pulita, in contemporanea con quelli sul canale alimentare. Nello svuotamento linfonodale laterocervicale funzionale in corso di intervento demolitivo significativa è l’associazione con la formazione di sieroematomi: fattori predisponenti da valutare, oltre l’inadeguato drenaggio intraoperatorio, lo stato nutrizionale, l’avanzato stato tumorale, il concomitante tracheostoma, errori tecnici nell’allestimento dei lembi ricostruttivi e nella sutura dei visceri coinvolti nell’intervento. Nella peritonite una qualche responsabilità si ravvisa nel mancato drenaggio o nel mal posizionamento del drenaggio stesso. Paradossalmente, in caso di errore professionale, l’insorgenza di un processo infettivo in cui sia dimostrabile l’estraneità dell’operatore potrebbe interrompere il nesso di causalità o quanto meno diminuire il grado di colpa. L’ambiente della sala operatoria nella quale può avvenire anche un eccessivo traffico del personale con conseguente aumento della quantità di polvere nell’aria, lo strumentario e lo stesso personale sanitario possono trasmettere una contaminazione al campo operatorio: una responsabilità diretta spesso non è dimostrabile o imputabile ma può essere fondatamente ipotizzata quando nella stessa sala si sia effettuato nelle ore precedenti un intervento evidentemente settico. Spesso l’infezione è dovuta ad un arrivo di germi dall’esterno per errore dovuto alla sterilizzazione della biancheria e dei ferri. Lo Pseudomonas aeruginosa è un agente infettante a scarsa attitudine patogena e per questo motivo sempre legato a infezioni a causa di insufficiente disinfezione e sterilizzazione di strumentario e ambiente chirurgico. Quando lo stesso tipo di infezione si verifica negli stessi giorni e in più sale dello stesso reparto la fonte può essere ricercata o nella sala operatoria o nel materiale di carrello. Per le infezioni che compaiono soltanto tra pazienti di una stessa sala bisogna pensare che l’infezione sia in quella sala o nel personale che l’accudisce. Nel caso in cui dopo l’intervento l’ammalato venga ricoverato in un ambiente dove siano degenti altri pazienti portatori di infezioni, ove si dimostri che la contaminazione avrebbe potuto essere prevista ed individuata viene a configurarsi una responsabilità. All’operatore e al medico di reparto spetta il compito di controllare i fattori di rischio eliminabili e prevedibili legati al loro operato. Per il primario l’inosservanza dei suoi sottoposti ricade su di lui per mancata vigilanza. La Struttura Sanitaria è sempre responsabile dei fatti illeciti commessi dai suoi dipendenti. La Cassazione ha affermato il principio per cui è onere del medico tenere conto di eventuali carenze della Struttura Sanitaria: tenuto e dimostrato entro limiti di ragionevolezza un comportamento diligente, non è da considerarsi responsabile il chirurgo qualora il fatto settico si verifichi in un ambiente in cui le carenze asettiche non sono accertabili ma solo ipotizzabili per obsolescenza della struttura, dell’arredo e dello strumentario. Nel caso suddetto si potrebbe ravvisare una responsabilità per rischio oggettivamente evitabile e la patologia iatrogena non provocata da errore dovrebbe essere indennizzata in un sistema di sicurezza sociale. La giurisprudenza è costante nell’affermare la responsabilità nel caso in cui il medico non segua costantemente, anche dopo l’atto operatorio, i propri pazienti. Rappresentano obbligazioni derivanti, oltre che da perizia, da diligenza la tempestività del riscontro di una infezione, la pronta esecuzione di accertamenti mirati all’identificazione del germe e della sua sensibilità a specifici antibiotici. Qualora l’infezione sopravvenuta presenti aspetti particolari, la titolarità del trattamento antibiotico, che normalmente entra nel novero delle attività del reparto chirurgico, potrebbe essere condivisa tra chirurgo e infettivologo onde evitare possibilmente la colpa per “assunzione”. Negli ultimi anni si è assistito alla colonizzazione dell’ambiente di ricovero da parte di un numero progressivo di ceppi multiresistenti e poco facilmente eradicabili in siffatta presenza, dove non esiste un efficace e univoco metodo di trattamento e dove esiste insicurezza per il successo terapeutico, la condotta del medico non risulta viziata da errore tecnico in caso di insuccesso dal momento che la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà. Compito dell’Azienda Sanitaria è quello di monitorare l’insorgenza di microorganismi antibiotico-resistenti e di redigere e divulgare le direttive per controllare e evitare l’insorgenza di tali agenti patogeni. In un processo infiammatorio anche asettico quale esito naturale di un intervento chirurgico il richiamo di germi è scontato. Dal momento che le infezioni preesistenti possono essere veicolo di contaminazione, sussiste responsabilità, qualora venga sottoposto ad intervento un paziente portatore di una patologia infiammatoria di altra sede e trasmissibile per via ematica, per non aver riscontrato o aver sottovalutato una possibile complicanza in sede di intervento. Nella chirurgia della staffa, ad es., l’intervento non deve essere programmato in presenza d’infezioni locali o generali, di infezioni ricorrenti delle vie aeree superiori, di problemi alla tuba di Eustachio: l’infezione a carico dell’orecchio medio potrebbe causare una labirintite con grave o totale perdita uditiva. Un richiamo di microorganismi, condotti con modalità standard il lavaggio e la disinfezione dell’operatore e della cute del paziente, può egualmente avvenire in un sito chirurgico privo di apparato vascolare per errore di tecnica, ad es. in corso discectomia per lesione del piatto cartilagineo posto tra disco avascolare e spongiosa ricca si sangue. Il medico è tenuto a fornire al paziente l’informazione circa la possibilità di eventuali infezioni derivanti dal tipo di intervento cui lo stesso viene sottoposto affinchè possa essere valutato il rapporto rischio/beneficio. La Suprema Corte ha più volte affermato il principio secondo cui in mancanza di informazione, gli oggetti della quale sono definiti nella sentenza n. 3611/97, non v’è consapevolezza: l’intervento chirurgico senza consenso informato costituisce fonte di responsabilità. L’impedimento all’intervento deriva dall’art. 32 e dall’art. 13 della Costituzione, dall’art. 33 della L. n. 833/78, nonché dall’art.32 del Codice di deontologia medica del ‘98 e dalla L. 28/3/2001, n.145 che recepisce la Convenzione sui diritti dell’uomo e della biomedicina sottoscritta il 4/4/1997 a Orviedo sancita dal Consiglio d’Europa. Così la mancata comunicazione al paziente da parte dell’operatore, portatore di infezioni siero trasmissibili di cui è a conoscenza, del proprio stato sierologico configura una responsabilità. L’omissione della informazione, infatti, oltre che rappresentare, anche in assenza di un danno diretto di rilevanza biologica, un grave errore comportamentale e una lesione etica dei diritti che costituiscono un patrimonio della personalità umana, comporta un vizio di consenso. Una lesione del diritto di libertà ovvero di una libera auto determinazione nelle scelte terapeutiche e in caso di danno, indipendentemente dal danno biologico, una lesione del diritto della salute per ingiusta esposizione a pericolo e un danno esistenziale per ingiusto peggioramento sia pur temporaneo della qualità della vita. Il legislatore attribuisce al datore di lavoro, nell’assegnazione dei compiti lavorativi, di tener conto del rischio che il lavoratore può rappresentare verso terzi. Il Garante per la privacy consente agli operatori sanitari, qualora sia indispensabile tutelare l’incolumità di terzi, il trattamento dei dati personali. Il Direttore Sanitario, che dirige i servizi sanitari ai fini organizzativi ed igienico sanitari e fornisce parere obbligatorio e non vincolante al Direttore Generale sugli atti relativi alle materie di sua competenza (D. L. n.502/1992), può, quindi, essere coinvolto, qualora evidenzi specifiche situazioni, nella responsabilità per contagio. Oggi l’operato del medico non è più considerato insindacabile e incensurabile. Uno spirito critico spesso abnorme, che nasce dalla vasta divulgazione medico-scientifica e da un generale rifiuto della malattia, quest’ultimo dovuto in parte alla mala rappresentazione della forbice esistente tra ciò che le scienze mediche e chirurgiche hanno raggiunto in termine di progresso e di risultato e ciò che nel singolo caso si può fare, genera una massa di lamentele che frequentemente giungono a conclusione extra giudiziaria o giudiziaria. Per quanto riguarda l’argomento in esame il numero delle controversie è ancora limitato e scarsi sono i contributi giurisprudenziali. Tuttavia, poiché dalle conoscenze dello stato epidemiologico degli ospedali possono sortire nuovi quadri di danno alla salute, utili appaiono il differenziare le situazioni di “danno iatrogeno” riconducibili allo sviluppo di concomitanti infezioni da quelle conseguenti all’atto chirurgico e il fornire interpretazioni degli eventi finalizzate ad individuare la causa di un possibile errore. In caso di azione civile, tenuto conto che l’evoluzione giurisprudenziale riflette il sentire comune, la coscienza di una ragionevole ipotesi di responsabilità potrebbe indirizzare verso la ricerca di una soluzione stragiudiziale, il che, oltre ad offrire evidenti vantaggi, aiuterebbe in penale. Senza sconfinare nelle analisi e negli studi di VRQ che, affrontando di regola un insieme di casi, tendono a delineare margini di miglioramento e/o a rimuovere situazioni dannose, giova segnalare nel procedere quotidiano l’importanza degli “eventi sentinella” cioè di “quei particolari tipi di indicatori sanitari, la cui soglia di allarme è uno. Basta cioè che il fenomeno relativo si verifichi una sola volta perché si renda opportuna una indagine rivolta ad accertare se hanno contribuito al suo verificarsi fattori che potrebbero essere corretti in futuro”. Per quanto riguarda le “accuse” un rapporto umano ottimale e una comunicazione semplice, personalizzata, esauriente e veritiera possono costituire un importante fattore di prevenzione. ASPETTI MEDICO LEGALI DELLE INFEZIONI: “Emotrasfusione ed epatite C” Le normative di legge che disciplinano i prelievi del sangue e le trasfusioni si trovano esplicitate nella Legge 107/90 e successivi decreti (ultimi del 25 e 26/1/2001). In tale Legge vengono individuate le modalità del prelievo, i test da applicarsi, gli indirizzi della trasfusione autologa (autotrasfusione) e della autotrasfusione perioperatoria con il recupero del sangue perduto. Inoltre, si deve richiedere al paziente da trasfondere un consenso scritto con l’obbligo di informarlo dei rischi connessi alla trasfusione (D.M. 1-995) attraverso la compilazione dello specifico modulo predisposto dal Ministero da unire alla cartella clinica. Prima di giudicare un danno come conseguenza di un errore medico, bisogna documentarsi circa le conoscenze e le tecniche applicabili all’epoca in cui fu eseguito l’atto medico. Importante precisazione giunge dalla Corte di Cassazione Civile (1999) là dove pronuncia che non può essere affermata la responsabilità di un ospedale a seguito della sopravvenuta insorgenza di epatite C in un paziente che nel 1985 si sottopose a trasfusione per l’impossibilità di individuare la presenza del virus nel sangue del donatore. La situazione della materia in oggetto è complicata dal fatto che la trasfusione è considerata pratica non esente da rischi e può provocare epatite da virus come conseguenza non imprevedibile né impensabile: “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di attività pericolose è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” (art. 2050 Cod.Civ.). Conclusioni Il rapido mutare dello scenario epidemiologico degli ultimi anni determinato dalla recrudescenza d’infezioni considerate ormai rare, dal progressivo aumento delle resistenze batteriche, non solo in ambiente ospedaliero, e dal ruolo sempre più importante che queste assumono nella comparsa di infezioni ospedaliere (I.O.) ha prodotto una profonda riflessione sulla necessità di dotarsi di efficaci strumenti di prevenzione e controllo delle resistenze batteriche sperimentando nuovi modelli di sorveglianza. Incidenza di patogeni nosocomiali emergenti o germi sentinella Un altro aspetto che deve sorvegliato attentamente è quello dell’emergenza di alcuni patogeni nosocomiali che possono creare particolari problemi nella terapia empirica delle infezioni ospedaliere. Ecco perché è importante conoscerne l’epidemiologia locale, soprattutto nei reparti a rischio che ospitano pazienti critici con patologie particolarmente gravi. Essi sono: -Stafilococchi meticillino – resistenti ( MRSA e MRSE); -Pseudomonas aeruginosa totoresistenti ; -Enterococchi vancomicina e/o teicoplanina resistenti ( VRE); -Stafilococco aureo con sensibilità intermedia alla vancomicina (VISA); -Enterobacteriaceae produttrici di Beta – lattamasi a spettro esteso (ESBL); -Acinetobacter baumannii multifarmaco resistenti; -Stenotrophomonas maltophilia cotrimossazolo resistenti. Le strategie per monitorare e controllare le resistenze batteriche La sorveglianza continua di alcuni patogeni definiti “sentinella” (per la rilevanza epidemiologica locale e non) e delle resistenze batteriche in ambiente ospedaliero, supportate dall’integrazione dei dati clinici del paziente, I sistemi di monitoraggio adottati e i risultati Attivazione del monitoraggio, integrato dai dati clinici, di tutti i pazienti degenti oltre le 24 ore, che presentano uno o più esami colturali positivi a patogeni antibiotico resistenti, definiti “combinazione sentinella” in quanto ai dati degli stessi vengono associati i consumi (in A.U.D.) delle molecole antibiotiche inducenti le specifiche resistenze, elencati nella tabella sottostante : Agente Resistenza Materiali M.R.S.A Oxacillina Segnalazione Tutti PSEUDOMONAS AERUGINOSA Imipenem Amikacina Giornaliera Tutti Ceftazidime La scelta dei patogeni resistenti è adottata dal CIO Giornaliera Obiettivo della sorveglianza è stabilire l’incidenza delle I.O. nella popolazione ospedaliera a maggior rischio di indurre casi nosocomiali (pazienti con infezioni da patogeni antibiotico resistenti ed altri microrganismi sentinella), identificare i fattori di rischio per prevenirne la diffusione da paziente a paziente e valutare l’idoneità delle misure di controllo adottate. Per la classificazione delle infezioni ospedaliere si utilizzano i criteri dettati dai Center for Disease Control- Atlanta (1988). A pericoli mutevoli rimedi divrsificati Per fronteggiare le infezioni emergenti i piani si basano di solito sulla sorveglianza e la sensibilizzazione, il sostegno alla ricerca applicata e il rafforzamento delle strutture della sanità pubblica. Ma il successo, secondo Cohen, sarà raggiungibile solo mediante un’azione ben determinata e la flessibilità delle misure contro le mutevoli strategie dei microbi. Per esempio, per bloccare l’aumento di resistenza delle salmonelle è indispensabile regolare l’uso degli antibiotici nelle bestie da allevamento e rafforzare la sicurezza della catena alimentare. In contrasto, l’espandersi delle resistenze di Streptococcus pneumoniae è contenibile con la creazione di vaccini e un più prudente uso degli antibiotici nella popolazi “Dobbiamo fronteggiare infezioni divenute intrattabili a causa di un cocktail micidiale di eventi: abuso di antibatterici e pressione selettiva sui germi, una più estesa circolazione delle infezioni e una ridotta disponibilità di nuove molecole antibiotiche”. Inoltre il fenomeno delle resistenze microbiche non riguarda più solo l’ambiente ospedaliero, come in passato, ma tutta la comunità: ne è un esempio la diffusione di Streptococcus pneumoniae penicillino resistente. E non sono in causa solo i batteri: difficoltà terapeutiche sono create dalle crescenti resistenze della candida, dell’HIV e del parassita malarico. L’altro aspetto sono gli alimenti, il cui potenziale infettivo è rilevante. Si stima che negli Stati Uniti oltre settanta milioni di persone si ammalino ogni anno per infezioni alimentari, con più di trecentomila ricoveri in ospedale e cinquemila decessi. Escherichia coli O157:H7, causa di diarree e della pericolosa sindrome emolitico-uremica, è un emblema della mirabile ma preoccupante abilità dei germi ad adeguarsi alle nuove situazioni del mondo moderno. “Questa varietà di coli ha iniziato a circolare negli anni cinquanta dopo aver incorporato nei propri cromosomi il materiale genetico della shigella. Ciò le ha fatto acquisire un’alta infettività e tossigenicità, che si sono sommate alle sue intrinseche capacità di resistenza alle condizioni ambientali. Tale combinazione di caratteristiche, insieme alle sopravvenute trasformazioni dell’industria alimentare, spiegano l’attecchimento nell’ambiente di questa specie microbica”. “Paradossalmente, mentre un tempo era in causa la malnutrizione da carenze quantitative e qualitative degli alimenti, al giorno d’oggi è l’eccesso di cibo che promuove la patologia infettiva, con il predisporre a malattie cardiovascolari, al diabete e all’obesità. Queste tendenze sono preoccupanti, anche perché lo strepitoso successo dei cibi già pronti rende noi tutti sempre più dipendenti dagli altri per la sicurezza di ciò che mangiamo”. Il ricercatore dei CDC fornisce alcuni dettagli dei radicali mutamenti nel modus vivendi degli abitanti del pianeta e delle loro ripercussioni sull’incidenza delle malattie infettive. “La popolazione invecchia. Gli anziani sono predisposti alle infezioni e ne ampliano il bacino di trasmissione. All’estremo opposto della scala di età, l’aumento delle coppie lavoratrici e delle famiglie con un solo genitore intensifica l’afflusso dei bambini agli asili, serbatoio di agenti infettivi”. La rivoluzione sessuale ha dato impulso alla trasmissione di virus e batteri, spesso resistenti agli antibiotici, come il gonococco ed Haemophilus ducreyi, l’agente dell’ulcera molle. Il fumo favorisce le infezioni da pneumococco. Con i viaggi turistici e di lavoro e con i recenti flussi migratori si spostano ogni anno da un paese all’altro milioni di persone, portando con sé specie microbiche innocue o virulente. La penetrazione dell’uomo in ambienti naturali o zone geografiche poco accessibili ha reso più frequenti malattie una volta assai rare, per esempio le infezioni da Histoplasma capsulatum fra gli speleologi o la coccidiomicosi nelle persone trasferitesi nelle zone caldo-asciutte del Sudovest degli Stati Uniti. “Oggi i medici di qualsiasi pronto soccorso o punto di accoglienza possono trovarsi di fronte individui contagiati da agenti di insolite malattie” commenta Mitchell Cohen. “Fra l’altro, anche le grandi catene di distribuzione alimentare sono in grado di propagare su scala nazionale e internazionale infezioni una volta limitate a qualche festa parrocchiale”. Rientra nel tema lo sviluppo di nuove tecnologie nel campo della medicina.”E’ certo che la chemioterapia prolunga la vita dei malati di cancro, ma li predispone altresì alle infezioni; altrettanto si può dire dell’immunosoppressione per chi subisce un trapianto d’organo. Nelle unità di terapia intensiva la pressione antibiotica seleziona germi multiresistenti e l’impiego di tecnologie invasive facilita le infezioni. Anche un fungo come l’aspergillo può portare alla morte”. Si moltiplicano i ritrovati per rendere la vita più comoda e certe procedure più convenienti, ma lo scotto sono le infezioni da legionella per gli impianti di condizionamento, lo shock tossico per i tamponi vaginali superassorbenti, le resistenze antibiotiche per l’utilizzo di antibiotici nei mangimi e la malattia della mucca pazza per il riciclaggio di cascami alimentari. In alcune circostanze gli elementi che provocano il declino di una malattia sono paradossalmente in grado di agevolare l’ascesa diun’altra: tale è il caso della refrigerazione, che rende i cibi in genere più sicuri, ma anche più adatti allo sviluppo di listerie e yersinie. Ed è sempre l’uomo la cagione di altre trasformazioni che hanno influito sulle condizioni abitative e climatiche del pianeta. Le megalopoli sono bombe a orologeria per i rischi connessi alle condizioni di igiene inadeguate; ne è un esempio l’epidemia di colera in America latina negli anni novanta. Le distruzioni della foresta pluviale hanno intensificato la circolazione dei virus delle febbri emorragiche. “Nei paesi sviluppati hanno avuto conseguenze spiacevoli persino certe pratiche di agricoltura, per il diffondersi di alghe tossiche, e i programmi di protezione degli animali selvatici. Il ripopolamento dei cervi nelle foreste ha infatti facilitato il propagarsi della malattia di Lyme” osserva il ricercatore. Per quanto riguarda i cambiamenti climatici, Cohen segnala che nel 1993 l’intensificarsi delle piogge nel Sudovest degli Stati Uniti ha portato a un forte sviluppo della vegetazione e dei piccoli roditori, dei loro contatti con gli uomini e, come ultima conseguenza, alla prima epidemia riconosciuta di hantavirus nel nord America. In analogia, l’ascesa della temperatura del Pacifico, prodotta da El Niño nel 1997, ha creato condizioni favorevoli allo sviluppo di Vibrio parahaemolyticus e a conseguenti infezioni associate al consumo di pesce. Dopo aver descritto una situazione critica che è in gran parte conseguenza degli errori dell’uomo, Cohen cita parole dello storico George Santayana che ben figurano a chiusura del tema: “Chi ignora il passato è condannato a ripeterlo”. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dalla comparsa di un numero significativo di agenti nuovi o appena identificati, e dalla ricomparsa di malattie infettive con impatto globale. Tra di essi ci sono agenti nuovi come l’HIV e la variante umana della malattia di Creutzfeldt-Jakob, microrganismi riemergenti come quelli responsabili di epidemie di febbri emorragiche virali in Africa, come gli agenti associati al bioterrorismo (es. la diffusione intenzionale di carbonchio negli Stati Uniti). Inoltre, l’espansione dei viaggi internazionali ha reso possibile un intensificarsi ed espandersi, talora ad elevata velocità, di agenti infettivi, come la recente epidemia di infezioni da SARS-Coronavirus ha dimostrato in maniera drammatica. In alcuni casi, come per alcuni agenti con impatto potenziale grave e pandemico (es. influenza aviaria) sono in atto sistemi di sorveglianza. In quasi tutte queste malattie infettive c’è un legame stretto con l’ambiente ospedaliero ed assistenziale, che spesso rappresentano la cassa di risonanza di eventi epidemici comunitari. In ogni caso, l’ospedale ha l’importante ruolo di identificazione precoce di questi agenti responsabili di malattie ad elevato allarme sociale, e al tempo stesso di dare le prime risposte al rischio di diffusione intraospedaliera e comunitaria di questi agenti. Si acuiscono nella stagione fredda, presentano un’elevata incidenza e colpiscono tutte le fasce d’età. Sono le infezioni delle vie respiratorie, i cui quadri clinici variano in base alla localizzazione, al patogeno causale, alla tipologia e alle condizioni generali del paziente. Esistono infezioni di natura sia virale che batterica. I virus influenzali che infettano l’uomo sono conosciuti da molto ma hanno una caratteristica che li rende problematici: possono cambiare nel tempo. Questa possibilità consente loro di circolare ogni anno come una nuova epidemia, tanto che è suggerita la vaccinazione per proteggersi dal virus che si pensa sarà presente in quell’anno. “È possibile, però, che questi stessi virus cambino radicalmente, anche se ciò avviene ogni 30-50 anni e solo in casi eccezionali più frequentemente”, “come successe con la pandemia d’influenza Spagnola negli anni 1918-22, con milioni di infettati in tutto il mondo e un’elevata mortalità, e con l’Asiatica negli anni ’50. In passato, l’antibiotico-resistenza è stata contrastata soprattutto dalla disponibilità di antibiotici nuovi e di migliorata efficacia, ma data l’attuale indisponibilità di nuove molecole, solo un uso più contenuto e più appropriato di quelle disponibili può contrastare la perdita di efficacia degli antibiotici stessi. Inoltre, è stato messo in evidenza come la ricerca scientifica e clinica finalizzata alla scoperta e allo sviluppo di nuovi antibiotici registri da anni un’allarmante flessione a causa del dirottamento degli investimenti di alcune aziende farmaceutiche su altre aree terapeutiche, nonostante il problema delle malattie di origine batteriche resti sempre attuale e di primaria importanza nella sanità pubblica”. Per quanto riguarda, poi, i costi dell’antibioticoresistenza, possono essere difficilmente quantificati, ma studi specifici hanno dimostrato che la mortalità, la probabilità di ospedalizzazione, la durata della degenza risultano essere almeno raddoppiati nei pazienti con una infezione sostenuta da microrganismi resistenti, rispetto a quelli con infezione sostenuta da ceppi sensibili. Sempre efficaci? La migliore difesa contro il crescente problema dell’antibiotico-resistenza? “Ricorrere agli antibiotici solo quando sono realmente necessari, seguendo esattamente le indicazioni del medico”, continua la professoressa, “assumere ogni dose prescritta e per tutta la durata prevista. Inoltre è opportuno evitare la loro conservazione per un uso futuro: l’efficacia è compromessa e l’eventuale utilizzo sconsigliato”. DALLA LETTERATURA: “il costo delle infezioni da MRSA” Infection Control and Hospital Epidemiology nel numero di febbraio 2001 riporta un interessante articolo dal titolo “The economic impact of methicillin-resistant Staphylococcus aureus (MRSA) in canadian Hospitals”. L’obiettivo degli autori è stato quello di determinare i costi connessi alla gestione dei pazienti ricoverati con un’infezione da MRSA. L’indagine è stata svolta in un unico ospedale canadese. Lo studio ha evidenziato un tasso pari a 2,9 casi di infezione da MRSA/1000 ricoveri. La media del numero di giornate di ricovero oltre soglia attribuibile ad infezione da MRSA è stata pari a 14. Il totale dei costi per paziente infetto pari a $14.360 (circa £ 30 milioni). Osservazioni: il tasso di infezione da MRSA nello stabilimento di Legnano è 2,5/1000 ricoveri superiori ad 1 giorno (circa 50 casi/anno). Pur con tutte le cautele del caso, riguardo ai costi che si riferiscono ad un modello sanitario differente dal nostro, possiamo stimare in circa un miliardo e mezzo di lire la spesa sostenuta per i 50 casi di infezione da MRSA. Due considerazioni appaiono necessarie: 1. Applicazione rigorosa delle precauzioni d’isolamento Standard-Contatto per prevenire la diffusione da pazienti “MRSA” a pazienti non infetti Avviare l’analisi dei costi delle più frequenti infezioni ospedaliere riscontrate in Azienda. Antibioticoprofilassi in chirurgia L’Istituto Superiore di Sanità, con il Documento 5 del settembre 2003, ha pubblicato le Linee Guida 2 “Antibioticoprofilassi perioperatoria nell’adulto”. Le linee guida forniscono a medici e infermieri “raccomandazioni sulla profilassi antibiotica” Una quota rilevante delle infezioni ospedaliere è costituita dalle infezioni postoperatorie, seconde solo alle infezioni delle vie urinarie. L’osservazione scrupolosa delle norme di asepsi, e l’abilità tecnica dell’operatore da tempo si sono dimostrate insufficienti, da sole, a prevenire le infezioni postchirurgiche, così come lo sono le condizioni fisiche dei paziente che giunge al tavolo operatorio. Gli studi di profilassi antibiotica in chirurgia hanno portato alla definizione di alcuni principi confermati da osservazioni sempre più circostanziate negli anni più recenti. Almeno in un certo numero di interventi elettivi ed in assenza di particolari fattori di rischio individuali, la chemioprofilassi è in grado di ridurre in maniera statisticamente significativa la frequenza delle infezioni postoperatorie, siano esse in sede di intervento sia che da esso prendano origine. Non significa certamente che ogni rischio sia escluso. Indagini retrospettive hanno dimostrato che le infezioni postchirurgiche non tendono a diminuire nonostante le più attente strategie di che mio profilassi. Lungi da ritenere ciò un fallimento, occorre tener conto dell’aumentato frequenza con cui giungono al letto operatorio pazienti ritenuti inoperabili fino a pochi anni fa. A ciò si aggiunge l’incremento vertiginoso della pratica di manovre diagnostiche invosive ad alto rischi infettivo e l’emergere di ceppi batterici “ospedalieri” particolarmente agguerriti e in grado di neutralizzare i meccanismi di attacco degli antibiotici. Standard assistenziali ed infezioni post chirurgiche “standard” assistenziali: procedurali, comportamentali, strutturali e organizzativi ritenuti principi generali di prevenzione. Sono classificati come fortemente raccomandati perché supportati da studi sperimentali clinici o epidemiologici dai CDC di Atlanta e sono sinteticamente raggruppati in: Misure preoperatorie 1. Preparazione del paziente 2. Preparazione dell’equipe chirurgica 3. Gestione del personale sanitario colonizzato o infetto Misure intraoperatorie 1. Ventilazione in sala operatoria 2. Igiene dell’ambiente 3. Campionamento microbiologico ambientale 4. Sterilizzazione dello strumentario chirurgico 5. Abbigliamento e teli chirurgici 6. Asepsi e tecniche chirurgiche 7. Medicazione della ferita. PROTOCOLLO PER LA VACCINAZIONE CONTRO L’EPATITE VIRALE B A distanza di circa tre anni dall’ultima revisione, il Ministero della Sanità con il Decreto del 20 novembre 2000 ha aggiornato il protocollo di esecuzione della vaccinazione contro l’epatite virale B. Le puntualizzazioni hanno riguardato in particolare la somministrazione delle dosi di richiamo, la valutazione della risposta immunitaria dopo la vaccinazione e l’esecuzione della profilassi post-esposizione. Neonati che debbono effettuare le vaccinazioni dell’obbligo Nei neonati nati da madre HBsAg negativa, il vaccino va somministrato al 3°, 5° e 11° mese di vita, contemporaneamente alle altre vaccinazioni obbligatorie e raccomandate. Nei neonati nati da madre HBsAg positiva la vaccinazione va iniziata alla nascita, entro le prime 12-24 ore di vita, con contemporanea somministrazione, in altra sede corporea, di immunoglobuline specifiche antiepatite B. Le successive tre dosi andranno somministrate: a distanza di 4 settimane dalla prima, nel corso del 3° e 11° mese di vita. Si utilizza il dosaggio pediatrico. Soggetti di età inferiore a 16 anni Il calendario della vaccinazione prevede tre dosi, da somministrare ai tempi 0, 1, 6 mesi., sia per soggetti appartenenti ai gruppi a rischio che per gli adolescenti della coorte dell’obbligo. Si utilizza il dosaggio pediatrico. Soggetti di età superiore a 16 anni ed adulti Si segue lo schema di somministrazione: 0, 1, 6 mesi. Si utilizza il dosaggio per adulti. Soggetti emodializzati e/o immunocompromessi Si segue lo schema di somministrazione 0, 1, 6 mesi, utilizzando una dose doppia rispetto a quella usata per l’adulto immunocompetente, ovvero preparazioni vaccinali apposite. Il contenuto in alluminio non dovrà superare 1,25 mg/dose. Per ottenere una risposta sierologica adeguata, ulteriori dosi di rinforzo potranno essere decise caso per caso in base ai risultati del monitoraggio sierologico dell’anti-HBs. Personale sanitario A distanza di 1-2 mesi dal completamento del ciclo primario della vaccinazione è indicata l’esecuzione di un test, anche solo qualitativo, per la valutazione della risposta anticorpale. E’ parimenti indicato il controllo anticorpale al momento dell’inizio dell’attività di operatore sanitario, per i soggetti precedentemente vaccinati. Qualunque sia il tempo trascorso dal completamento del ciclo primario, in caso di positività del test per la ricerca degli anticorpi anti-HBs, non è necessaria alcuna dose di richiamo, né ulteriori controlli dello stato immunitario. Negli operatori sanitari, in caso di negatività del test anti-HBs dopo il ciclo di vaccinazione primaria, è invece indicata la somministrazione di una quarta dose di vaccino, con ulteriore valutazione del titolo anticorpale a distanza di 1-2 mesi. Trattamento post-esposizione Per i soggetti vaccinati in precedenza, di cui non si conosca la risposta anticorpale al ciclo primario di immunizzazione, in caso di esposizione accidentale a virus dell’epatite B, è indicata la somministrazione di immunoglobuline specifiche insieme ad una dose di vaccino e l’esecuzione di un test per la ricerca degli anticorpi anti-HBs a distanza di almeno un mese. Nei soggetti non vaccinati, si segue lo schema accelerato di immunizzazione con somministrazione delle dosi di vaccino ai tempi: 0, 1, 2 mesi e di una dose di rinforzo a distanza di 6-12 mesi dalla terza. Contemporaneamente alla prima dose di vaccino è opportuna la somministrazione di immunoglobuline specifiche, in sede corporea diversa. Le immunoglobuline specifiche vanno somministrate entro il 7° giorno ed il ciclo di vaccinazione per il trattamento post-esposizione va iniziato entro il 14° giorno dal contatto potenzialmente infettante. Nei soggetti vaccinati e riscontrati antiHBs negativi (non responders), la profilassi postesposizione si effettua mediante somministrazione di immunoglobuline specifiche. Intervallo tra le dosi, interruzione del ciclo vaccinale, richiami. Per quanto riguarda l’intervallo tra le dosi, ai fini di un’adeguata risposta immunitaria nei soggetti di tutte le età, è necessario che trascorra un intervallo di almeno 4 settimane tra una somministrazione e l’altra; le dosi somministrate ad intervalli inferiori non vanno considerate valide ai fini del completamento del ciclo vaccinale. Nel caso in cui si verifichi una momentanea interruzione del ciclo di somministrazione, non è necessario che questo venga ripreso ex-novo se non sono trascorsi più di dodici mesi tra la prima la seconda dose, e più di 5 anni tra la seconda e la terza dose. Indipendentemente dall’età del soggetto a cui viene praticata la vaccinazione, non è necessario procedere alla somministrazione di dosi di richiamo di vaccino dopo il completamento del ciclo di base. Studi epidemiologici hanno dimostrato la persistenza, anche a distanza di anni, della protezione conferita dalla vaccinazione nei LAVAGGIO DELLE MANI: PUOI CONTRIBUIRE A PREVENIRE LA DIFFUSIONE DELLE INFEZIONI OSPEDALIERE USANDO UNA ADEGUATA TECNICA DI LAVAGGIO Bagnarsi le mani, Distribuire un minimo di 3 –5 ml. di sapone o detergente e distribuirlo accuratamente su tutte le aree di entrambi le mani Lavare vigorosamente tutta la superficie delle mani e delle dita e sotto le unghie Sciacquare per rimuovere il sapone e asciugare le mani Usare una salviette di carta per chiudere il rubinetto Applicare regolarmente una crema per le mani per ridurre gli effetti essiccanti di un frequente lavaggio delle mani. IL LAVAGGIO DELLE MANI Puoi contribuire a prevenire la diffusione delle infezioni ospedaliere usando una adeguata tecnica di lavaggio: – bagnarsi le mani – distribuire un minimo di 3 – 5 ml. di sapone o detergente e distribuirlo accuratamente su tutte le aree di entrambi le mani – lavare vigorosamente tutte le superfici delle mani, delle dita e sotto le unghie – sciacquare per rimuovere il sapore ed asciugare le mani – usare la salvietta di carta per chiudere il rubinetto applicare regolarmente una crema per le mani per ridurre gli effetti essiccanti di un frequente lavaggio delle mani Centers for Disease Control – ATLANTA 1988 INDICAZIONI AL LAVAGGIO DELLE MANI G. Pellegatta “Il corretto lavaggio delle mani degli operatori ospedalieri è il più efficace e meno costoso intervento di prevenzione e controllo delle infezioni nosocomiali”. Un’affermazione nota a tutti ma che riscuote solo una parziale adesione. Al recente 3°Convegno Interdisciplinare sulle infezioni ospedaliere tenutosi a Bergamo nel giugno scorso, il prof. Didier Pittet dell’Ospedale cantonale di Ginevra ha presentato una relazione dal titolo esemplificativo “The permanent challenge of hand hygiene promotion” . La comunicazione ha stimolato una serie di osservazioni: Quante volte lavarsi le mani : rispettando le indicazioni alle singole tipologie di lavaggio ed analizzando le attività caratteristiche di varie tipologie di UU.OO. è stato visto che mediamente un operatore in servizio in una struttura Pediatrica dovrebbe lavarsi le mani circa 8 volte/h contro le 30 volte/h in Rianimazione. Tra questi estremi si pongono le medicine con circa 10 lavaggi e le Chirurgie con 12 lavaggi. Le UU.OO. con maggior compliance verso la procedura di lavaggio delle mani sono quelle in cui il personale medico è più attento a tale aspetto e dove è stata fatta una valutazione interna delle procedure assistenziali in rapporto al lavaggio mani. Corrette procedure di lavaggio che prevedano tempi brevi aumentano la compliance da parte del personale. Generalmente il lavaggio delle mani con acqua e detergente (lavaggio sociale) è una misura sufficiente per il controllo della trasmissione delle infezioni ospedaliere. Questa operazione ha la funzione di eliminare la flora transitoria dall’epidermide. Tuttavia, procedure assistenziali ad alto rischio infettivo richiedono un lavaggio con specifici antisettici. La cute dell’ uomo è normalmente colonizzata da microrganismi che costituiscono la cosiddetta flora cutanea residente, rappresentata in larga prevalenza da cocchi gram positivi saprofiti (Staphylococcus Epidermidis, Micrococcus) e da bastoncelli gram positivi non patogeni della famiglia delle Corynebacteriaceae. Tale flora è comunque rappresentativa dell’ambiente in cui operano le mani. Altri patogeni, infatti, svolgono per lo più il ruolo di inquinanti transitori, vale a dire di batteri pervenuti occasionalmente sulla cute, allontanabili con relativa facilità con un energico lavaggio con acqua e sapone. La presenza di batteri sporigeni costituisce una evenienza occasionale, limitata a pochi distretti corporei. Spore di Clostridium Welchii, ad esempio, sono state segnalate sulle cosce, sui glutei e nelle zone inguinali, come conseguenza di una auto-contaminazione di origine fecale, senza una reale colonizzazione della cute. La flora residente è disposta in parte (circa l’ 80%) negli strati superficiali e in parte (circa il 20%) negli strati profondi (ghiandole sudoripare, follicoli piliferi). Il trattamento della cute con disinfettanti causa la distruzione dei soli batteri residenti negli strati superficiali, essendo gli strati profondi praticamente inaccessibili alla disinfezione. La conseguente riduzione della carica batterica è transitoria in quanto, entro breve tempo, si ha la ricolonizzazione delle zone superficiali da parte dei batteri degli strati profondi. Da tali considerazioni preliminari consegue che per l’allontanamento della flora cutanea transitoria in condizioni operative normali può essere sufficiente un lavaggio accurato con prodotti detergenti: lavaggio sociale delle mani. Nelle situazioni a rischio (manovre invasive, assistenza a pazienti suscettibili alle infezioni o portatori di patologie infettive, ecc.), per contro, è indicato il lavaggio antisettico delle mani con prodotti attivi sia sulla flora transitoria che su quella residente. IL LAVAGGIO DELLE MANI Puoi contribuire a prevenire la diffusione delle infezioni ospedaliere usando una adeguata tecnica di lavaggio: – bagnarsi le mani – distribuire un minimo di 3 – 5 ml. di sapone o detergente e distribuirlo accuratamente su tutte le aree di entrambi le mani – lavare vigorosamente tutte le superfici delle mani, delle dita e sotto le unghie – sciacquare per rimuovere il sapore ed asciugare le mani – usare una salviette di carta per chiudere il rubinetto – applicare regolarmente una crema per le mani per ridurre gli effetti essiccanti di un frequente lavaggio delle mani Centers for Disease Control – ATLANTA 1988 ALCOOL ED IGIENE DELLE MANI: – due nuovi studi ne suffragano l’utilità Due recenti studi francesi (1, 3) hanno confermato che la disinfezione con alcool o soluzioni a base di alcool può costituire un elemento essenziale per il controllo delle infezioni. Il primo studio è stato effettuato in reparto, il secondo in sala operatoria. Il lavaggio delle mani in reparto richiede un’azione rapida per rimuovere i contaminanti acquisiti per contatto (“contaminanti transitori”) da pazienti o superfici contamiante. Girou et al. (1) hanno confrontato l’efficacia di 3-5 ml di alcool (una soluzione di propano-1ol e propano-2-ol, per un 75% totale di alcool) e di una soluzione acquosa al 4% di clorexidina sulla riduzione della flora contaminante sulle mani del personale dopo contatto con i pazienti (altri studi avevano valutato l’efficacia dopo contaminazione “artificiale” delle mani). La riduzione della flora batterica è stata rispettivamente di 83% e 58% (P=0.012). ESPOSIZIONI OCCUPAZIONALI PERCUTANEE A RISCHIO BIOLOGICO E INTRODUZIONE DI DISPOSITIVI MEDICI DI SICUREZZA R Bonazzina, R Bernacchi, R Calcaterra, M Garavaglia, L Gorla, N Portalupi (*), L Trpin, MR Zoia Tra gli obblighi che il D.Lgs. 626/ 94 pone in capo al datore di lavoro per la prevenzione del rischio biologico va citato l’articolo 79, comma 1: “In tutte le attività per le quali la valutazione di cui all’articolo 78 evidenzia rischi per la salute dei lavoratori il datore di lavoro attua misure tecniche, organizzative e procedurali, per evitare ogni esposizione degli stessi ad agenti biologici.” Esistono inoltre linee guida e documenti nazionali ed internazionali che forniscono indicazioni tecniche sulle misure di sicurezza atte ad evitare l’esposizione al rischio biologico. Basti citare quanto pubblicato da I.S.P.E.S.L. (1) e da CDC-NIOSH (2), ove si prevede che il datore di lavoro elimini l’uso di aghi quando siano disponibili sicure ed efficaci alternative, sviluppi l’uso di dispositivi di sicurezza e ne valuti le prestazioni per stabilire quali siano più efficaci ed accettati, analizzi il fenomeno delle punture accidentali, stabilisca priorità e strategie di intervento e valuti nel tempo l’efficacia delle misure di prevenzione intraprese. Rischio bilogico Definizione Si definisce Biologico il rischio derivante dalla trasmissione di agenti biologici ed in grado di provocare malattia infettiva in soggetti umani. Il D.Lgs. 626/94 affrontata per la prima volta in maniera specifica il rischio conseguente alla esposizione ad Agenti Biologici, non solo per le attività che ne comportano l’utilizzo diretto (agricoltura, laboratori, ecc.) ma anche per quelle in cui la loro presenza è occasionale, come nell’attività assistenziale nei luoghi di ricovero e cura. L’art. 75 della legge sopracitata classifica gli agenti biologici in Gruppi dal numero 1 al numero 4 in ordine crescente in base al loro potere patogeno. In ambiente ospedaliero i microrganismi patogeni con il maggior grado di pericolosità con i quali gli operatori sanitari entrano più frequentemente in contatto sono: Virus dell’epatite B (HBV); Virus dell’epatite C (HCV); Virus dell’AIDS (HIV); Micobacterium tubercolosis (tubercolosi); “LINEE-GUIDA PER IL CONTROLLO DELLA MALATTIA TUBERCOLARE” E RISCHIO PROFESSIONALE IN AMBITO SANITARIO R. Bonazzina La TBC costituisce tuttora per la popolazione un rilevante problema di Sanità Pubblica, per il cui controllo è necessario un intervento organico di riduzione della diffusione della malattia, attraverso le seguenti attività: – Il trattamento farmacologico e la gestione degli ammalati con tubercolosi attiva. – L’identificazione, la sorveglianza e il trattamento preventivo dei gruppi ad alto rischio: contatti di un caso di TBC, persone con infezione da HIV, altri gruppi a rischio. – vaccinazione con – La sorveglianza epidemiologica e la valutazione dei programmi di controllo. BCG. Per quanto riguarda più in particolare i soggetti esposti a rischio professionale, gli operatori sanitari che assistono frequentemente pazienti con TBC presentano un rischio elevato di contrarre questa patologia. La prevenzione della tubercolosi in questo gruppo di popolazione si fonda su: 1. Valutazione del rischio. Il rischio di trasmissione di TBC all’interno di ciascun presidio sanitario varia in rapporto al numero di malati con TBC in fase contagiosa che vengono assistiti dalla struttura e viene definito in base alle caratteristiche epidemiologiche della TBC nel bacino di utenza del presidio, al numero di casi di TBC contagiosa assistiti nell’anno e ai risultati dell’analisi delle conversioni tubercoliniche tra gli operatori sanitari. 2. Attivazione di un programma di controllo. Un efficace programma di controllo e prevenzione del contagio tubercolare intranosocomiale richiede la precoce identificazione, l’isolamento e il trattamento delle persone con tubercolosi attiva e deve porsi i seguenti tre obiettivi: a) Adozione di provvedimenti atti a ridurre il rischio di esposizione a persone con TBC attiva (definizione di protocolli per la tempestiva identificazione, l’isolamento, la diagnosi e il trattamento dei soggetti con probabile TBC; programmi di educazione, informazione e addestramento del personale sanitario; sorveglianza sanitaria periodica degli operatori); b) Interventi di tipo strutturale per prevenire la dispersione e ridurre la concentrazione dei droplet nuclei; c) Uso di protezioni respiratorie individuali nelle aree dove persista il rischio di esposizione al Mycobacterium Tuberculosis (per es. nelle stanze di isolamento per tubercolosi). 3. Sorveglianza e profilassi individuale degli operatori. La sorveglianza attiva della TBC tra gli operatori sanitari deve prevedere: a) La pronta identificazione dei casi di tubercolosi attiva. b) L’esecuzione periodica di screening tubercolinici al fine di identificare precocemente gli infetti: all’assunzione tutti gli operatori sanitari, inclusi quelli già precedentemente vaccinati con BCG, dovrebbero eseguire una intradermoreazione con PPD, esclusi quelli con cutipositività documentata o una storia documentata di malattia tubercolare adeguatamente trattata. Per coloro che risultino positivi vanno eseguite le necessarie indagini cliniche volte a svelare l’eventuale presenza di TBC attiva e vanno presi gli opportuni provvedimenti terapeutici e profilattici. Gli operatori con Mantoux negativa al momento dell’assunzione dovrebbero ripetere il test a intervalli regolari, stabiliti sulla base della valutazione Gli interventi di profilassi sono rappresentati da: del rischio. a) La vaccinazione antitubercolare con BCG, obbligatoria ai sensi del D.P.R. 7/11/2001 n. 465 per il personale sanitario, studenti in medicina, allievi infermieri e chiunque, a qualunque titolo, con test tubercolinico negativo, operi in – ambienti sanitari ad alto rischio di esposizione a ceppi multifarmacoresistenti; – ambienti ad alto rischio e non possa, in caso di cuticonversione essere sottoposto a terapia preventiva, perché presenta controindicazioni cliniche all’uso di farmaci specifici. b) La chemioterapia preventiva dei soggetti infetti: i soggetti riscontrati cutipositivi dovranno essere sottoposti ad accertamenti per escludere la presenza di TBC attiva. Bisognerà proporre la chemioterapia preventiva ai lavoratori con meno di 35 anni di età che siano risultati cutipositivi e, indipendentemente dall’età, a coloro che – siano dei recenti convertitori o abbiano avuto un incremento della reazione > 10 mm; – si – trovino in condizione abbiano mediche di aumentato rischio di TBC; un’infezione HIV; usino droghe per via iniettiva. (Le linee guida sono pubblicate sul Supplemento ordinario n. 35 alla G.U. n. 40 del 18/02/’99) IL BOLLETTINO SCIENTIFICO E L’INFORMAZIONE IN AZIENDA P. Viganò La schizofrenia dell’informazione con cui siamo ormai rassegnati a convivere contagia, purtroppo, anche il terreno dell’epidemiologia con ricadute devastanti su tutti i settori di sanità pubblica che da questa prendono le mosse. “Digerito il cappone, torna l’aviaria!” mi suggeriva un collega subito dopo l’apoteosi culinaria di fine anno, e non aveva torto: blackout totale sull’H5N1 durante il periodo natalizio sui grandi mezzi di informazione e ripresa del tema a vacanze concluse. E’ forse il caso di recuperare un po’ di equilibrio, ma è soprattutto importante che gli esperti di Sanità si diano da fare con coscienza e competenza per affrontare rischi, per ora solo potenziali, di eventi che potrebbero mettere a nudo importanti carenze di sistemi che “stanno in piedi” solo per buona volontà e per lo “stellone”. In questo contesto il CCIO si posiziona in un ruolo di riferimento fondamentale per una corretta e tempestiva valutazione e gestione dei rischi di tipo infettivo all’interno di una struttura complessa quale l’Azienda Ospedaliera che, inevitabilmente, non può arroccarsi tra le mura di una cittadella avulsa dal territorio. I compiti propositivi e di sprone del CCIO sono ampiamente confermati dai contenuti di questo numero del Bollettino che sottolinea e valorizza le numerose attività messe in atto a livello formativo e operativo da parte di alcune realtà ospedaliere più che mai attente ai segnali premonitori di significativi accadimenti. Evitare le sorprese è da sempre il miglior sistema di prevenzione e il tenere all’erta le sentinelle costituisce la prima garanzia per una ordinata e coerente messa a punto di qualsiasi piano di intervento che non si limiti a rappezzamenti di situazioni sfilacciate. Anche per l’anno da poco iniziato il CCIO si propone come punto di raccordo delle varie iniziative sinergicamente messe in campo per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione di situazioni a rischio infettivo, sempre nell’ottica di una gestione propositiva e non passiva, “efficacemente normale” e non inutilmente fibrillante. Una logica propositiva deve, però, tener conto di molti fattori: le risorse umane sono indubbiamente il punto di forza di un’Azienda che, in questi anni, ha messo in campo importanti programmi di formazione e aggiornamento, le strutture e le tecnologie sono di notevole livello, ma necessitano di continui e impegnativi interventi per tenere il passo con l’esuberanza del progresso tecnico-scientifico. Un sano realismo ci sollecita a contestualizzare queste problematiche in un quadro di compatibilità economica che richiede una oculata gestione delle risorse con una definizione di priorità, condivisa per quanto possibile. Pur nella complessità degli scenari di una Azienda in profonda trasformazione, una progettualità condivisa, un attento confronto e la disponibilità delle competenze di ciascuno possono rendere più accessibili traguardi non sempre facili, ma di grande soddisfazione umana e professionale. BIBLIOGRAFIA 1. C.D.C Atlanta: Mangram AJ, et All “Guideline for prevention of surgical site infection” 1999, Inf. Cont H Epidemiol 1999; 20:250-78 2. Regione Emilia-Romagna, Agenzia sanitaria regionale, Centro di documentazione per la salute “Infezioni ospedaliere in ambito chirurgico: studio multicentrico nelle strutture sanitarie dell’Emilia-Romagna”; Issn 1591-223x, dossier 63 – 200 3. Regione Autonoma Friuli – Venezia Giulia , Servizio Sanitario Regionale: RAPPORTO SUL SERVIZIO SANITARIO REGIONALE ANNO 2003, Agenzia Regionale della Sanità 4. Regione Lombardia “Linee guida sulla prevenzione e sicurezza delle sale operatorie” DGR 6/47077 del 17/12/99 (BUR) Italia Malattie infettive – Ministero della salute Il sito fornisce informazioni relative alla prevenzione ed alla sorveglianza delle malattie trasmissibili ed alla profilassi internazionale. http://www.ministerosalute.it/promozione/malattie/malattie.jsp Sistema informativo Malattie infettive (SIMI) – Istituto superiore di sanità (ISS) Sito di Epidemiologia delle Malattie infettive dell´Istituto superiore di sanità http://www.simi.iss.it/ Il Laboratorio di Epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità, nell’ambito del Progetto per un Osservatorio Epidemiologico Nazionale, ha messo a punto Epicentro. http://www.epicentro.iss.it/ Europa WHO Regional Office for Europe http://www.who.dk/ Eurosurveillance http://www.eurosurveillance.org/index-05.asp European Medicines Agency (EMEA) http://www.emea.eu.int/ Francia Inghilterra Internazionali World Health Organization (WHO – OMS) Sito ufficiale dell´Organizzazione mondiale della sanità http://www.who.int/en/ Centers for disease control and prevention (C.D.C.) http://www.cdc. National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) – National Institutes of Health (NIH) http://www.niaid.nih.gov/ National Foundation for Infectious Diseases (NFID) http://www.nfid.org/ USA Canada