La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per la società datrice di lavoro a corrispondere ad un proprio lavoratore dipendente un indennizzo pari al 50% della retribuzione annua lorda per ogni anno di demansionamento, a titolo di ristoro del relativo pregiudizio
La vicenda
In primo grado, il Tribunale di Roma aveva riconosciuto il demansionamento subito dal ricorrente nel periodo di lavoro intercorso tra l’agosto 1998 ed aprile 2003.
Aveva pertanto condannato l’azienda datrice di lavoro al risarcimento del danno quantificato nella misura pari al 50% della retribuzione annua lorda per ogni anno di demansionamento, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Aveva inoltre condannato la predetta società al pagamento della somma di € 20.400 a titolo di ulteriori differenze retributive fra la qualifica di quadro e quella effettivamente rivestita nel maggio 2001/ dicembre 2004.
In secondo grado, la corte d’appello aveva parzialmente riformato tale decisione senza, tuttavia, disconoscere che il dipendente era stato lasciato a lungo in una condizione di demansionamento la quale, seppure non connotata da caratteristiche di vessatorietà ed intenzionalità proprie del mobbing, risultava senza dubbio negativa per la sua professionalità.
Il dipendente era, infatti, stato costretto in una situazione di inattività professionale protrattasi per lungo tempo.
A tale situazione connessa al demansionamento (in quanto idoneo a compromettere il patrimonio di esperienza e qualificazione professionale, a prescindere dall’esistenza di specifiche aspettative di progressione di carriera) la corte territoriale disponeva la liquidazione in via equitativa del relativo ristoro, determinato in misura corrispondente alla metà della retribuzione percepita per ogni anno di demansionamento, oltre accessori.
Ma cosa ne pensano i giudici della Cassazione?
Ebbene i giudici della Suprema Corte hanno confermato il giudizio espresso in sede di appello.
Ed in effetti, la corte territoriale aveva, in conseguenza all’accertato demansionamento, riconosciuto il pregiudizio al patrimonio di esperienza e di qualificazione professionale, configurato quale espressione di un diritto primario, a prescindere dall’esistenza di specifiche aspettative di progressione di carriera.
In tal modo – aggiungono gli Ermellini – ha dimostrato di interpretare la tutela accordata al lavoratore dall’art. 2103 c.c. come estesa ad un ambito più ampio rispetto a quello strictu sensu legato alla professionalità intesa come diritto di progressione di carriera.
Corretta anche la quantificazione dell’indennizzo.
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