Il vincolo di esclusività è stato oggetto di disamina in materia collegiale professionale: la stessa Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lav., 16 aprile 2015 n. 7776, ha espresso il seguente principio di diritto: “Il Consiglio di Stato con parere reso il 15 marzo 2011 nell’affare n. 678/2010, ha affermato che quando sussiste il vincolo di esclusività con il datore di lavoro, l’iscrizione all’albo è funzionale allo svolgimento di un’attività professionale svolta nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente, pertanto la relativa tassa rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività che dovrebbe, in via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso svolgere l’attività lavorativa, gravare sull’ente che beneficia in esclusiva dei risultati di detta attività.
Il Consiglio di Stato, per giungere a tale soluzione, ha fatto espresso riferimento all’indirizzo espresso da questa Corte nella sentenza 20 febbraio 2007 n. 3928 che ha stabilito che quando un’attività professionale è resa a favore di un datore di lavoro che vincola il proprio dipendente, quanto versato a titolo di quota professionale a favore dell’albo, deve essere ripetuta dal datore di lavoro”.
Sulla scorta del principio di esclusività del rapporto di lavoro, la I sezione del Consiglio di Stato con parere n. 678 del 23 febbraio 2011, citato dalla sentenza appena riportata, si è interessata di stabilire se un dipendente pubblico in full-time, avvocato, fosse obbligato o meno a pagare la quota di iscrizione al proprio Ordine professionale: “… dopo l’assunzione, il rapporto si configura come un rapporto di durata nel quale la prestazione professionale del componente dell’avvocatura civica è resa continuativamente, anno dopo anno, nell’interesse dell’ente di appartenenza in via esclusiva, dovendo gli interessati, per patrocinare innanzi le varie Autorità giudiziarie, essere iscritti al relativo Ordine professionale. Pertanto, l’iscrizione è funzionale allo svolgimento di un’attività professionale svolta quando sussista il vincolo di esclusività, nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente. Ne consegue che i costi per lo svolgimento di detta attività dovrebbero, in via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso svolgere altre attività lavorative, gravare sull’amministrazione che beneficia in via esclusiva dei risultati di detta attività. Ciò corrisponde ad un principio generale ravvisabile anche nell’esecuzione del contratto di mandato, ai sensi dell’art. 1719 C.C., secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell’incarico … Nel lavoro dipendente si riscontra comunque l’assunzione, analoga a quella che sussiste nel mandato, a compiere un’attività per conto e nell’interesse altrui. PQM si esprime il parere che il ricorso debba essere accolto”.
Si evince, quindi, che le soluzioni offerte dall’esegesi giuridica e dalla giurisprudenza in materia, non contemplano l’esistenza di una figura ibrida come quella dell’infermiere nel Comparto; o siamo professionisti o siamo operai.
Inoltre, appare opportuno segnalare un altro paradosso che priva di fondatezza qualsivoglia tesi avversaria.
L’infermiere dipendente è disciplinato dalla contrattazione collettiva di comparto cioè quella parte della contrattazione sanitaria che riguarda il personale non dirigenziale non laureato, mentre nella contrattazione per la dirigenza sono inclusi i medici, i biologi, i sociologi, gli psicologi, gli avvocati, gli ingegneri, insomma le categorie laureate.
Si tratta, come detto, di un paradosso perché nel comparto tutti i lavoratori sono vincolati dall’esclusività e, quindi, la subordinazione obbliga il datore di lavoro a manlevare i dipendenti da ogni onere che grava sulla prestazione lavorativa, mentre nella dirigenza prevale la libertà di svolgere attività presso terzi, salvo congrue indennità di esclusività.
Questa netta dicotomia viene sconfessata e volutamente travisata nel caso dell’infermiere perché si pretende l’esclusività, requisito del comparto e, nel contempo, si pretende anche l’iscrizione all’albo, requisito della dirigenza quale espressione della libertà professionale.
Noi dell’AADI siamo per l’iscrizione al Collegio se però la professione verrà valutata e trattata come merita e come stabilisce la legge per tutte le altre professioni; siamo stanchi della continua discriminazione che ci relega ai posti più infimi della collettività professionale italiana.
La discriminazione operata sul nostro sangue e sui nostri sacrifici va corretta!
La realtà, purtroppo, è diversa perché gli interessi sindacali che si accalcano sulla mangiatoia sono tanti.
L’infermiere, benché oggi professionista laureato e dignitosamente al pari di tutti i profili dirigenziali, si trova nel comparto cioè insieme agli autisti, gli ausiliari, gli idraulici, gli elettricisti, gli ascensoristi, i cuochi, ecc.; questi sono i colleghi dell’infermiere, questo è quello che vogliono i sindacati.
Quindi l’infermiere attualmente non potrebbe mai optare per l’attività libero-professionale né auspicare a vedersi riconosciuta la giusta retribuzione e il giusto ruolo sociale al pari di tutti gli altri veri professionisti.
Non vi può essere, quindi, un obbligo di iscrizione all’albo finché la natura subordinata vincola l’infermiere a percepire un’unica statica retribuzione impedendogli di sviluppare liberamente le proprie capacità professionali nel proprio tempo libero.
A.D.I
Avvocatura diritti Infermieristici.