L’infermiere, nel somministrare il farmaco, deve collaborare con il medico e segnalare le eventuali anomalie che sia in grado di riscontrare ma secondo la Cassazione (sentenza 20270/2019) il medico di riferimento deve essere strutturato e non può essere uno specializzando o appartenente ad un altro reparto.
L’infermiere che somministra un farmaco e si rende conto che il dosaggio è sbagliato non può eseguire pedissequamente ciò che è scritto sulla ricetta, ma deve interpellare il medico. Quest’ultimo tuttavia non può essere uno specializzando non in possesso di tutte le informazioni necessarie a comprendere e in caso correggere l’errore, ma deve essere un medico strutturato del reparto interessato.
A indicarlo è la Corte di Cassazione (IV sezione penale) che con la sentenza 20270/2019 ha annullato la sentenza della Corte di Appello a cui l’ha rinviata in altra composizione per rivedere alla luce di una serie di principi giurisprudenziali – sia in diminuzione che in peggioramento – le pene inflitte agli imputati.
La Corte di Appello aveva già rivisto, concordando, le pene prevista dal Tribunale in primo grado e aveva condannato gli imputati – tre medici e due infermieri – rispettivamente a due anni e sei mesi e due anni e dieci mesi di reclusione i due infermieri, eliminando l’interdizione dalla professione infermieristica e a 4 anni e 4 mesi di reclusione, 4 anni e 8 mesi di reclusione, 4 anni e sei mesi di reclusione, ma in questo caso anche con l’interdizione dalla professione medica per 4 anni e per 4 anni e sei mesi per i tre medici.
Il fatto
L’errata somministrazione di un farmaco antiblastico a una paziente affetta da linfoma di Hodgkin in chemioterapia ne aveva provocato la morte. Questo perché durante il ciclo terapeutico è stata somministrata, per errore di trascrittura sul foglio di prescrizione interna, una dose di 90 mg di farmaco antiblastico anziché 9 in base alla superficie corporea della paziente, già trattata in precedenza in modo analogo, ma con le giuste dosi, con successo.
La sentenza
Secondo la Cassazione il compito di somministrare i farmaci negli ospedali è affidato agli infermieri, che vi adempiono attenendosi alle prescrizioni fatte dai medici, ma la somministrazione è un atto non meccanicistico ma collaborativo con il personale medico e l’infermiere, anche se non può intervenire sulle scelte terapeutiche del medico, deve in ogni caso richiamare l’attenzione su errori che sia in grado di notare e deve illustrare i suoi eventuali dubbi sulla congruità o la pertinenza della terapia.
Per la Cassazione l’infermiere ha un ruolo di garanzia nella terapia farmacologica, limitato al confronto con il medico che invece deve scegliere la cura migliore per il paziente.
È obbligo dell’infermiere la “segnalazione di anomalie che egli sia in grado di riscontrare o di eventuali incompatibilità fra farmaci o fra la patologia ed il farmaco da somministrare o fra particolari condizioni (per es. allergie annotate in cartella o a sua conoscenza) e la cura prevista”.
E poiché l’infermiera che aveva somministrato il farmaco si era confrontata con un medico, ma specializzando, la Cassazione entra nel merito affermando che l’infermiere, per sciogliere dei nodi relativi al dosaggio dei farmaci, debba confrontarsi solo con medici cosiddetti strutturati e non possa agire con gli altri medici operanti dei reparti, anche se dotati di autonomia di intervento.
Prima e dopo la vicenda erano intervenuti anche altri colleghi dei due proifessionisti, ma senza risolvere l’errore e, quindi, anch’essi imputabili secondo i giudici.
Secondo la Cassazione, infatti, “l’evento letale era stato determinato da un gravissimo errore dell’anestesista, qualificato dalla Corte “rischio nuovo e drammaticamente incommensurabile”, rispetto a quello innescato dalla prima condotta”.
“Si tratta di un principio – si legge nella sentenza – ribadito anche di recente da questa Sezione, secondo cui, in tema di reati colposi omissivi impropri, l’effetto interruttivo del nesso causale può essere dovuto a qualunque circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare”.
“Il canone si estende certamente – prosegue la sentenza – al reato commissivo, qual è quello di specie, e che, tuttavia, in egual modo implica che l’esorbitanza del rischio sia tale da costituire ‘rischio nuovo’”.
“Nell’ipotesi in esame – sottolinea la Cassazione – il rischio garantito da colui che compila la diaria della cartella clinica, indicando la dose del farmaco da somministrare, è quello relativo alla tutela del paziente da errori posologici che possano influenzare la salute e l’efficacia della cura.
Laddove successivamente, sulla base di quell’errore, intervenga da parte di medico che opera in un secondo momento, proprio l’errata somministrazione, non può ritenersi ‘non nuovo’ il rischio determinato dalla realizzazione dell’errore primario, che il primo agente era chiamato a evitare”.
Secondo la sentenza quindi “non può ritenersi … che la condotta del medico specialista abbia interrotto la serie causale attivata proprio dalla condotta colposa del medico specializzando”.
E per quanto riguarda l’infermiera il discorso è analogo e la sentenza sottolinea che “vanno richiamate le medesime osservazioni”.
Secondo la Cassazione “a questo punto, prima di affrontare le ulteriori questioni poste, relative alla sussistenza del reato continuato in concorso relativo e alla commisurazione concreta della pena debbono vagliarsi gli ulteriori motivi essendo stati già esaminati quelli di rito”.
La Cassazione fa riferimento alla normativa che regola la professione di infermiere, sottolineando la “pluralità di disposizioni di natura legislativa e regolamentare che ne hanno profondamente mutato la natura disegnando l’autonomia operativa propria tipica della figura professionale”.
“La complessa normativa tratteggia dunque spiega la sentenza – una figura professionale che, per le competenze che le sono affidate, assume una specifica e autonoma posizione di garanzia nei confronti del paziente nella salvaguardia della salute, della cura e dell’assistenza, il cui limite è l’atto medico”.
In questo ambito secondo la Cassazione l’atto di somministrazione del farmaco è concepito, secondo la giurisprudenza di legittimità come atto “non meccanicistico ma collaborativo con il personale medico orientato in termini critici, al fine non di sindacare l’operato del medico bensì per richiamarne l’attenzione su errori percepiti ovvero per condividere gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita”.
Secondo la sentenza “è chiaro tuttavia, che la prescrizione dei farmaci resta al di fuori delle competenze infermieristiche e che il ruolo di garanzia che compete all’infermiere nella ‘sfera’ della terapia farmacologica si limita al ‘confronto’ con il medico cui è demandata la scelta della cura.
Rientra, in questo senso, fra gli obblighi dell’infermiere la segnalazione di ‘anomalie’ che egli sia in grado di riscontrare o di eventuali ‘incompatibilità’ fra farmaci o fra la patologia ed il farmaco da somministrare o fra particolari condizioni (per es. allergie annotate in cartella o a sua conoscenza) e la cura prevista”.
“E’ chiaro – tira le somme la Cassazione – che l’elemento della disorganizzazione, della confusione dei compiti, della mancanza di un procedimento di controllo dell’opera degli specializzandi e in generale dei medici operanti nel reparto, ma ancor di più l’affidamento di compiti di ‘copiatura’ delle prescrizioni a meri studenti di medicina, ignari del significato delle indicazioni trascritte, l’assenza di controlli successivi destinati a elidere gli eventuali errori e, dunque, in generale la mancanza di una procedimentalizzazione effettiva, coinvolgente tutti gli attori intervenienti nella formulazione, nella comunicazione e nell’approntamento del farmaco da somministrare, sono condizioni incidenti sul grado di rimproverabilità della condotta, che non possono venire tout court ignorate nella determinazione della pena per il reato colposo”.
Quello che viene descritto dalla sentenza come un vero e proprio ‘sfascio organizzativo’, la cui entità portò, dopo l’ispezione, alla chiusura del reparto di oncologia, “deve riversarsi sul giudizio relativo alla sanzione penale irrogata per il reato colposo, essendo detto quadro quello in cui si maturarono la negligenza e l’imperizia dei medici coinvolti, certamente favorite dalla più generale negligenza connotante l’assenza di adeguamento dell’unità operativa agli standard di sicurezza necessari, ragione per la quale si giunse alla temporanea sospensione dell’attività”.
Per la Cassazione la sentenza della Corte d’appello “riconosce che un simile stato di cose influenzò la commissione dei reati di falsità ideologica, il cui elemento soggettivo per la sua natura dolosa, prescinde dalle condizioni esterne, che possono al più oggettivamente agevolare la realizzazione del delitto, ma non considera, invece, che proprio la disorganizzazione grava in concreto sull’effettiva realizzazione della condotta colposa incidendo sulla divergenza fra la condotta tenuta e quella attesa”.
Redazione NurseNews. Eu
Fonte
Quotidiano Sanità