Le norme che legittimano la «prescrizione infermieristica» senza violare il Codice penale.
La «ricetta» dell’infermiere.
Diagnosi e piani assistenziali possono essere redatti anche dal nursing.
Il passaggio da professione ausiliaria a professione sanitaria, determinato dalla legge 42/1999 e reso ancora più vigoroso ed energico dalla legge 251/2000, ha indubbiamente fatto in modo di rendere palese ciò che prima, molto probabilmente, era abbastanza velato, ossia il grande sapere e le immense potenzialità della professione infermieristica,
sapere e potenzialità che sono sempre esistite, ma per troppo tempo lasciate a riposare sotto la coltre del cosiddetto mansionario, ossia l’abrogato decreto del Presidente della Repubblica 225/1974.
Oggi l’infermiere è davvero responsabile dell’assistenza infermieristica a tutto campo e a tutto campo si occupa di assistenza infermieristica, così come individuata e delineata dal profilo professionale, il Dm 739/1994.
In relazione alle indicazioni fornite dal profilo professionale, l’infermiere partecipa all’identificazione dei bisogni di salute della persona, identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e formula i relativi obiettivi.
Inoltre il codice deontologico degli infermieri fornisce una serie di strumenti per la miglior realizzazione dell’assistenza infermieristica: a esempio, un articolo virtualmente molto efficace è l’articolo 4.7, che in qualche
realtà incontra purtroppo ancora una certa resistenza nel prendere l’avvio: «L’infermiere garantisce la continuità assistenziale anche attraverso l’efficace gestione degli strumenti informativi».
Ecco che allora in questo contesto occorre chiedersi se possa trovare collocazione, tanto dal punto di vista professionale quanto dal punto di vista giuridico – e questo soprattutto per evitare di incappare tra le maglie dell’articolo 348 del Codice penale che si occupa dell’abusivo esercizio di professione – il concetto di “prescrizione infermieristica”.
È indubbio che il sostantivo prescrizione, e così il verbo
da cui deriva, prescrivere, sia per ragioni storico-culturali che per motivi professionali, rimanda,
con un forte richiamo, alla professione medica.
Da sempre è il medico che prescrive e da sempre la prescrizione è stata considerata atto medico.
Questo perché probabilmente sino al 1999, data di entrata in vigore della legge 42, gli atti sanitari diversi dagli atti medici erano davvero pochi. All’epoca risultava difficile parlare di autonomia dell’atto infermieristico quando tutta l’attività dell’infermiere (all’epoca ancora definito “professionale”) era fortemente subordinata all’atto medico.
A esempio, il Dizionario delle professioni infermieristiche della Utet, che tuttavia risale ormai a dieci anni, or sono alla voce prescrizione afferma che si tratta della «trascrizione su fogli di ricettario personale o sul ricettario del Ssn degli esami ematochimici o strumentali
a cui si deve sottoporre il paziente, dei farmaci che il paziente deve assumere, dei presìdi terapeutici o di cicli di terapie fisiche».
Questa definizione pare non lasciare troppo spazio ad altre professioni diverse da quella del medico e anche altri dizionari meno specialistici non sono di grande aiuto.
Infatti, una delle definizioni più ricorrenti di prescrizione risulta essere la seguente: «Quanto viene
prescritto come terapia e profilassi, dal medico, e in particolare, nelle ricette, l’indicazione dei farmaci
prescritti, delle dosi e delle modalità di somministrazione».
In letteratura medico-legale si rinvengono varie definizioni, nonostante la maggior parte delle quali
si riferisca perlopiù alla prescrizione farmacologica: «La prescrizione è l’autorizzazione scritta dal medico volta a disporre la consegna al paziente del medicinale da parte del
farmacista»; «la ricetta medica consiste nella prescrizione
terapeutica, compilata e firmata dal medico, contenente
consigli dietetici e indicazioni di cure con relativa posologia e modalità d’uso»; e ancora: «La prescrizione è un istruzione dal prescrittore al dispensatore». Quest’ultima definizione non fa riferimento in maniera esplicita al medico ma genericamente a «colui che prescrive».
In relazione a quanto detto vale la pena domandarsi se i tempi siano sufficiente maturi perché possa affrontarsi il tema di una “prescrizione” che veda non il medico come soggetto prescrivente ma anche, ovviamente nell’ambito di un contesto prettamente assistenziale, l’infermiere.
La risposta è sicuramente positiva, ma occorre comprendere il significato della locuzione “prescrizione infermieristica”.
Ovviamente, si è ancora distanti dall’esperienza inglese, e dalle competenze degli infermieri del Regno Unito. Nel Regno Unito, soprattutto a partire dal 2000 si è allargato enormemente il dibattito sull’estensione dell’esercizio della prescrizione da parte di personale non medico, compresi infermieri, farmacisti e assistenti sanitari e nel
maggio del 2006 si è arrivati all’apertura ai cosiddetti “infermieri prescrittori indipendenti” dell’intero Formulario nazionale britannico.
È chiaro che occorrono, e gli infermieri del Regno Unito la posseggono, una preparazione e una formazione specifica che consistono in un corso di formazione e pratica che dura tre anni, dove gli infermieri affrontano aspetti di farmacologia, diagnosi, doveri legali, etica, dosaggi e scenari dei pazienti.
Al di là delle discussioni anche molto accese che questa sfida ha scatenato oltremanica, sia all’intero della classe medica che di quella infermieristica, va detto che l’iniziativa è assolutamente positiva e valorizza e garantisce sicuramente quel processo di continuità assistenziale su cui il codice deontologico italiano si rivela particolarmente attento.
Anche in Spagna proprio in questi giorni si sta cercando di trovare una collocazione giuridica al concetto di prescrizione infermieristica intesa come documento che il paziente possa utilizzare nelle farmacie per ricevere i farmaci o i prodotti prescritti dall’infermiere.
In Italia il concetto di prescrizione infermieristica comincia a farsi strada in maniera ancora tutto sommato abbastanza timida e forse guardato da qualcuno con un certo
scetticismo e tenendo sempre a mente come sia ancora percepito come troppo labile il confine tra atto medico e atto nella fattispecie infermieristico, con conseguente
rischio di scivolamento nel reato punito dall’art. 348 Cp, tenuto conto che nessuna norma descrive analiticamente le attività proprie della professione medica e, dopo l’abrogazione del mansionario, neppure della professione infermieristica. Ci troviamo in quella che l’Antolisei – insigne giurista del secolo scorso – definiva quella zona grigia tra il lecito e l’illecito, dove in difetto di precise norme legislative o regolamentari, molto è rimesso
al prudente apprezzamento dei giudici.
Ciò da una parte rappresenta sicuramente una fortuna, ossia il fatto che non esistano più norme sul genere del mansionario, ma dall’altra crea qualche dubbio all’interprete in relazione a quelle decisioni giurisprudenziali che affermano come siano riservate al medico le scelte e le valutazioni di carattere terapeutico. Il tema rimanda al significato del concetto di terapia ed
è troppo vasto per essere affrontato in questa sede. È interessante, tuttavia, la definizione di Giorgio Cosmacini
circa il concetto di terapia intesa come rimedio ai guasti fatti dal male. Il problema è delicato e di non facile soluzione: in questo ambito il bene tutelato è la salute pubblica e del singolo cittadino -con un forte richiamo all’art. 32 della Costituzione – e la giurisprudenza a volte è stata abbastanza severa in tutte quelle occasioni in
cui un soggetto veniva a esplicare quelle attività, iniziative e applicazioni tipiche del rapporto medicopaziente.
Quale potrebbe essere, a questo punto, lo strumento che dalla zona grigia ci permette di approdare a una zona più luminosa? Tale strumento potrebbe essere il concetto di «competenza tecnico-scientifica», ossia il possesso di quelle conoscenze e abilità professionali che sono peculiari dell’esperto di quel determinato settore; competenza, quindi, intesa come “saper agire” e anche come “saper essere
responsabile”.
Il concetto di competenza permette anche di superare i timori che potrebbe suscitare l’art. 348 Cp. Infatti, se è vero che la ratio della norma che punisce l’abusivo esercizio di una professione consiste nell’esigenza di evitare quei danni che potrebbero conseguire dall’esercizio di determinate attività da parte di chi sia privo delle
necessarie cognizioni tecnico-scientifiche, è chiaro che se il professionista è in grado di dimostrare, per il suo percorso di studi di base e post-base e anche per il fatto che è iscritto a un albo professionale, tra l’altro garante della sua qualifica professionale, di aver raggiunto e di essere in possesso di quella determinata competenza, è facile che si riesca a superare lo scoglio determinato dall’art. 348 Cp.
Ecco che allora si può giungere facilmente al concetto di
“prescrizione infermieristica”. Monica Casati la individua come la «definizione degli interventi assistenziali da parte dell’infermiere, per conto dell’équipe infermieristica». Alla luce di questa definizione va detto che la prescrizione infermieristica consiste in un’azione autonoma del professionista infermiere in risposta a una diagnosi
infermieristica. Diagnosi che, come è noto da tempo, costituisce la base sulla quale scegliere gli interventi
infermieristici volti a raggiungere risultati che rientrano
nella sfera di competenza dell’infermiere.
Il terreno della cura delle lesioni cutanee è certamente un terreno che si presta ad affrontare il tema della prescrizione infermieristica per quello che concerne, a esempio, le medicazioni avanzate e gli ausili anti-decubito che, da una parte, non necessitano necessariamente di prescrizione medica e dall’altra, tuttavia, necessitano di una qualificata competenza clinica di tipo specialistico nella loro prescrizione. L’infermiere esperto in woundcare
ha gli strumenti professionali e quindi le competenze per agire come “prescrittore”, ossia come il professionista sanitario che individua e indica quali azioni di assistenza
infermieristica sono da attuare, con quali strumenti e con quali modalità applicative. E qui prende significato il concetto della suddivisione degli interventi infermieristici, proposto da Linda Carpenito, che divide, appunto, gli interventi infermieristici in due tipi: quelli
prescritti dall’infermiere e quelli prescritti dal medico.
È chiaro che l’attuale assetto legislativo limita, in qualche modo e per alcuni aspetti, l’agire dell’infermiere
nell’ambito prescrittivo, dal momento che – perlomeno ai fini che possono interessare in questa sede – il Dm 27 agosto 1999, n.332, contenente il «Regolamento recante norme per le prestazioni di assistenza protesica erogabili nell’ambito del Servizio sanitario nazionale: modalità di erogazione e tariffe» dispone che gli aventi diritto per poter accedere gratuitamente ai vari dispositivi indicati nel nomenclatore devono essere in possesso di una prescrizione redatta da un medico specialista del Servizio sanitario nazionale competente per tipologia di menomazione
o disabilità. L’infermiere apparentemente – perlomeno dal punto di vista della norma giuridica – nulla ha a che vedere nel contesto dell’erogazione, o meglio della prescrizione, dei dispositivi protesici o degli ausili di cui al Dm 332/1999: questo è vero se ci si riferisce alla possibilità
di usufruire di questo tipo di assistenza che è a carico del Ssn per determinate tipologie di pazienti portatori di certe invalidità. Di contro, l’eventuale prescrizione infermieristica, nel contesto del wound-care potrà essere una risorsa, a esempio, nei confronti di quei pazienti, affetti da lesione, ma che non rientrano in quelle categorie
alle quali le aziende sanitarie riconoscono l’erogazione, con costi a proprio carico, dei dispositivi indicati nel nomenclatore. Quindi, la prescrizione da parte dell’infermiere esperto in lesioni cutanee di un determinato
ausilio antidecubito o di un altro dispositivo di
ausilio, non dovrebbe creare e sollevare dubbi e incertezze
circa la liceità di tale atto, che si muove in un contesto
prettamente infermieristico. È ovvio che a monte dell’atto
prescrittivo infermieristico dovrà esistere un processo che non potrà non esserci: tale “processo” sarà necessariamente costituito da una fase di accertamento che ha la funzione,
tra le altre, di mettere l’infermiere nella condizione di poter poi esprimere un giudizio clinico su quel paziente; successivamente si avrà una diagnosi, ovviamente infermieristica, ossia un giudizio clinico vero e proprio che permetterà all’infermiere di valutare le condizioni del paziente e metterlo nella condizione di scegliere il tipo
di intervento da prospettare al paziente stesso. A ciò seguirà la formulazione di un piano di assistenza infermieristica che potrà prevedere al suo interno l’attività dell’infermiere anche come prescrittore autonomo degli interventi infermieristici.
Redazione NurseNews.eu
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