L’AADI il 1° marzo 2015, prese a cuore il caso dei colleghi Modenesi che erano stati tutti condannati per abuso della professione infermieristica in base all’art. 348 C.P..
Per dimostrare che la condanna era ingiusta, due esponenti dell’AADI organizzarono a Modena, grazie al proprio segretario provinciale, un convegno al quale parteciparono diversi colleghi interessati alla vicenda penale.
Si è voluto, una volta per tutte, fare chiarezza in merito ai titoloni che vediamo puntualmente apparire sui quotidiani locali o sulle testate Nazionali e, soprattutto, in articoli sottoscritti da qualche sindacato (in particolare della CISL, considerato che la presidente OPI di Roma è infatti attualmente una militante CISL).
Si è voluto esprimere il punto di vista legale dell’AADI sul concetto di infermieri “abusivi”, oltre che, nel rispetto della legalità e della giusta informazione.
L’AADI non nascondeva le proprie deduzioni sull’argomento e pubblicò quanto segue, anche su nursetimes, che naturalmente fu scopiazzato da alcuni sindacati pro infermiere, per sorreggere i ricorsi avverso il pagamento della tassa OPI.
Anche l’ADI ha fatto tre ricorsi che, addirittura, hanno visto sospendere dal servizio due infermiere perché asseritamente abusive e quindi il processo si è allungato in quanto abbiamo dovuto prima far reintegrare le infermiere.
Comunque sono pendenti altri ricorsi soprattutto al Policlinico di Roma che recentemente ha minacciato la sospensione dal servizio ad oltre 200 infermieri, tra i quali il ns. Presidente.
Leggendo il titolone altisonante “abuso della professione” verrebbe da dire……”ecco altri furbastri che abusivamente svolgevano la professione di Infermiere senza averne titolo”.
Ma la realtà è ben altra cosa, e si perché le cose non stanno proprio cosi, già un’altra testata giornalistica locale del Genovese, il secolo XIX, nel lontano 2009 aveva titolato “49 infermieri abusivi senza albo, solo burocrazia, no malasanità” altro titolone da prima pagina, ma che almeno aveva avuto l’accortezza di non allarmare la pubblica opinione con il termine “malasanità”, e sì perché in realtà queste vicende non hanno nulla a che vedere con la qualità del servizio prestato dagli infermieri ne tanto meno con la capacità giuridica di poter esercitare la professione di infermiere, ma è solo un contenzioso di natura burocratico/amministrativa tra chi sostiene che sia obbligatorio pagare il collegio (IPASVI) e chi no, (un fronte sempre più ampio) che si trascina ormai da anni e che ha visto un rinvigorimento con la legge 1 febbraio 2006 n. 43.
In realtà la norma a cui si fa riferimento è una legge che avrebbe dovuto stravolgere l’attuale assetto normativo e statutario del collegio degli infermieri (IPASVI), che come espressamente indicato nella stessa legge, avrebbe visto trasformarsi finalmente in Ordine il collegio degli Infermieri, permettendo cosi ai propri associati di poter esercitare anche la libera professione (pur essendo dipendenti pubblici) un po’ per come avviene per i medici, ma che in realtà non è mai stata applicata poiché mancante dei decreti attuativi che la potessero rendere a tutti gli effetti operativa.
Per meglio comprendere di cosa stiamo parlando, dobbiamo necessariamente dare una breve ma esaustiva spiegazione di cosa si intenda per decreti attuativi.
In realtà l’espressione Decreto Attuativo è una definizione “non tecnica”, poiché non esiste un istituto nel Diritto italiano che si chiami in questo modo, è un ‘espressione che si usa per indicare “tutti quegli atti che possono essere sia decreti delegati, sia regolamenti, sia atti amministrativi generali, con i quali si dà attuazione a un certo provvedimento legislativo”, poiché molto complesso, particolarmente delicato o farraginoso, è quindi un atto (normativo o amministrativo) che ha la funzione di definire le misure necessarie ad attuare una legge.
E’ un trucco spesso usato dal legislatore, specie quando la disciplina di una certa materia è complessa. In questi casi, quindi, la legge rinvia ad altri atti le scelte di dettaglio o di elevato contenuto tecnico che il Parlamento non è in grado di compiere.
I decreti attuativi possono avere una natura molto diversa, a volte può trattarsi di atti amministrativi (per esempio, decreti ministeriali); altre volte di regolamenti (di competenza del Governo o di singoli Ministri); nei casi più importanti, poi, l’attuazione può essere demandata ai decreti legislativi, e cioè ad altri atti che hanno un valore equivalente a quello della legge e che il Governo adotta su delega del Parlamento.
Immaginate quindi in quale coacervo di regole la Legge n. 43/2006 è stata concepita e pubblicata sulla gazzetta ufficiale.
Ma la cosa più importante è che la legge di cui sopra, è tra le 760 leggi attuali, alle quali non sono stati ancora definiti i relativi decreti attuativi; ergo, la legge non è operativa perché la mancanza del decreto attuativo, quando previsto (e accade per un numero sempre crescente di leggi) comporta l’inapplicabilità della legge stessa.
Detto questo, è chiaro che se la legge non può essere applicata, di fatto, non può operare e quindi i suoi effetti sono nulli.
Quello che ci premeva come Associazione che tutela l’immagine e la professione infermieristica, era spiegare con parole semplici a cosa sono andati incontro i colleghi di Modena e perché, in virtù proprio di questa carenza di decreti attuativi.
In realtà, come spesso accade, l’articolo non è chiaro per nulla e lascia spazio a fraintendimenti che poi possono essere strumentalizzati a fini propagandistici per orientare le scelte libere degli infermieri dell’’iscrizione al collegio IPASVI.
L’AADI sostiene l’iscrizione al collegio IPASVI da parte dei dipendenti pubblici e privati quando l’infermiere intende svolgere attività libero professionale, oggi possibile in maniera occasionale per un reddito autorizzato non superiore a 5.000 euro.
Non siamo d’accordo sulla politica del terrore operata sovente da alcuni collegi IPASVI che anziché accattivarsi gli infermieri proponendo soluzioni, assistenza, tutela e supporto agli iscritti, liberando la professione anche nei confronti dei dipendenti subordinati meritevoli, condannando e lottando contro il demansionamento, lo sfruttamento soprattutto economico dell’infermiere, mira semplicemente all’intimidazione penale come unica strategia diretta all’accaparramento di denaro.
La Suprema Corte di Cassazione è chiara nell’interpretare la legge n. 43 nel senso di obbligare il dipendente pubblico e privato ad iscriversi al Collegio “quando vi è libertà nell’esercitare la libera professione”.
In poche parole, considerato che in Italia gli infermieri subordinati cioè dipendenti di un datore di lavoro, sono vincolati dal dovere di fedeltà ovvero di esclusività, vige un espresso divieto di esercitare la professione di infermiere al di fuori del proprio ambito lavorativo, costringendo anche i più bravi e meritevoli a occupare il proprio tempo libero, magari standosene a casa a vedere la televisione.
A questi colleghi viene impedita la libera manifestazione della propria professionalità e delle proprie capacità tecniche, a differenza del medico, perché sono relegati a quanto dispone il proprio datore di lavoro, sottomessi ad un metus che ricorda la schiavitù sotto il diritto romano, dove il dominus aveva il potere di decidere come il servo doveva condurre la sua vita.
Questa realtà che nessuno può ignorare ma che l’IPASVI continua a minimizzare o negare, deve essere affrontata perché non è possibile conciliare, ai giorni nostri, l’elevata professionalità e cultura raggiunta dall’infermiere nella società italiana, oramai al passo con l’evoluzione tecnica e normativa.
E il dilemma che l’A.A.D.I. solleva oramai nella completa indifferenza dei sindacati e dell’IPASVI, sta portando queste istituzioni ad uno scontro che si risolverà, di nuovo, nei tribunali.
Non è razionale lasciare che l’infermiere, sanitario laureato, esista all’interno di un’area contrattuale che regola, invece, arti e mestieri.
Nessuno ha saputo spiegare all’A.A.D.I. per quale motivo l’infermiere è trattato sul fronte della preparazione della responsabilità come il medico, ma viene retribuito come un ausiliario.
Ma la verità è semplice e più volte l’A.A.D.I. l’ha rappresentata nei corsi ECM.
La distinzione che separa i lavoratori nasce già dal diritto romano.
Alle locatio operis troviamo i mestieri e le arti (artigianato) che svolgono attività esecutive, elementari e comunque che si imparano con il tirocinio ed una preparazione di base che non prescrive alcun particolare titolo di studio e, sul piano della responsabilità, risponde come obbligazione di risultato cioè vi è l’obbligo, a fronte del compenso, di raggiungere lo scopo dedotto in contratto (es. per l’idraulico riparare il rubinetto).
Alle locatio operarum troviamo le professioni (avvocato, medico, ingegnere, infermiere).
L’infermiere trova la sua ratio professionale all’art. 2229 C.C. che ne sancisce l’intellettualità cioè il quid che lo separa dai mestieri perché quanto svolge nasce dalla preparazione teorica e da studi all’uopo dedicati per saper svolgere prestazioni di particolare complessità e responsabilità visto che risponde per obbligazioni di mezzi (cioè può non raggiungere l’obiettivo dedotto in contratto essendo sufficiente l’impegno diligente e perito).
Brevemente così premessa la dicotomia del lavoro, nessuno ha saputo spiegare all’A.A.D.I. perché se la contrattazione è divisa in:
1. comparto sanità: qui si trovano le arti ausiliarie, il titolo di studio non supera la scolarità media superiore, sono ammessi dei corsi speciali che spesso sostituiscono la scolarità della media superiore, sono gerarchicamente sottoposti, non possiedono autonomia gestionale, le retribuzioni sono medio-minime, l’organizzazione è serratamente gerarchica, sono sottoposti al dovere di fedeltà;
2. dirigenza sanitaria: qui si trovano le professioni, il titolo di studio è la laurea, sono lievemente sottoposti ad una gerarchia perché la titolarità della dirigenza riconosce a questi lavoratori un ambito di autonomia gestionale, sovente controllano e gestiscono personale del comparto, la carriera è prevista e ricorrentemente accessibile, la retribuzione è elevata e non vi è dovere di fedeltà e se vi è esclusività tale disagio viene indennizzato.
L’infermiere è laureato, esercita una professione intellettuale, è iscritto ad un collegio professionale, ed allora cosa ci fa nel comparto con gli idraulici, gli ausiliari, i cuochi e gli autisti?
Ci spiegassero i sindacati e l’IPASVI perché l’infermiere al pari degli altri professionisti sanitari, si trova nell’area del comparto anziché in quella della dirigenza.
Ci spiegassero perché la laurea in infermieristica ci fa entrare insieme ai colleghi cuochi nella stessa area contrattuale, mentre la laurea in medicina li fa entrare nell’area della dirigenza.
Infermiere Medico
Laureato Laureato
Sanitario Sanitario
E’ iscritto all’albo professionale E’ iscritto all’albo professionale
Contratto Comparto il collega è un elettricista Contratto Dirigenza il collega è un avvocato
Stipendio di poco superiore all’elettricista Stipendio superiore all’avvocato
Deve vivere con il solo stipendio Può vivere con tanti stipendi
Il disagio da esclusività è gratis Il disagio da esclusività è pagato profumatamente
E’ incaricato di pubblico servizio E’ un pubblico ufficiale
raramente è pubblico ufficiale raramente è incaricato di pubblico servizio
Come è possibile sostenere che l’infermiere sia uguale al medico.
A forza di dirlo vi convincono che sia così, ma non lo è.
L’A.A.D.I. affronta la realtà e cerca di porvi rimedio, gli altri creano la fantasia così che nessuno vi ponga rimedio.
A chi fa comodo lasciare l’infermiere nel comparto così da gestirlo come manovalanza? Così da impedirli ogni crescita e successo? Così che i superiori gerarchici mettano bocca su tutto e manipolino l’intera professione?
Se l’infermiere fosse, come deve essere, un dirigente di I livello e il coordinatore di II livello (come i medici), molti perderebbero il controllo sugli infermieri.
Lasciando la questione in sospeso magari ad una tavola rotonda che abbiamo intenzione di aprire a Roma a settembre durante un ecm, veniamo all’articolo pubblicato nella edizione di Modena today, nel quale si parla di sentenza di condanna per abuso della professione di infermiere.
La fattispecie di cui all’art. 348 C.P., non può ritenersi integrata in quanto con il conforto della giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. da ultimo, Cass. pen. sez. VI, 4 novembre 2008, n. 6491, Pramaggiore – conf. Cass. pen. sez. VI, 1 aprile 2003, n. 28306) può affermarsi che l’obbligo di iscrizione all’albo professionale è previsto solo per coloro che esercitano liberamente la loro attività professionale mediante contratti d’opera conclusi direttamente con il pubblico dei clienti, a norma degli artt. 8 e 10 del D.L.vo n. 233 del 1946 e non anche per coloro che prestano la propria attività all’interno di una struttura sanitaria, pubblica o privata che sia.
In quest’ultima ipotesi, l’unico requisito richiesto è il possesso del titolo abilitante a svolgere quella determinata attività professionale.
Ha più che condivisibilmente affermato la Corte sul punto, che la ratio dell’obbligo d’iscrizione nell’apposito albo degli esercenti la libera professione di infermiere va individuata nella necessità di portare a conoscenza del pubblico quali siano le persone autorizzate ad esercitare tale professione e nello stesso tempo di garantire che le stesse siano sottoposte alla vigilanza dei competenti Collegi per eventuali aspetti disciplinari e per l’osservanza delle tariffe predisposte.
Ne consegue che l’iscrizione all’albo professionale configura un atto di accertamento costitutivo dello status di professionista, operante erga omnes, con l’ulteriore conseguenza che la stessa è imposta soltanto a coloro che esercitano la libera professione mediante contratti d’opera direttamente con il pubblico dei clienti.
Per questo motivo, non può configurarsi il reato di cui all’art. 348 del C.P., per quel che riguarda invece il problema amm.vo. in questo caso, come in molti altri, la denuncia querela presentata alle autorità (da chi non si sa, ma abbiamo forti sospetti) mette in moto un meccanismo previsto dal codice di procedura penale, che termina non con una vera e propria sentenza per come la conosciamo tutti, ma con una sanzione di natura pecuniaria anche in sostituzione di quella detentiva prevista e disciplinata dal codice agli artt. 459 c.p.p. e ss. e che si caratterizza per l’assenza del contraddittorio e l’emissione di un “decreto penale di condanna inaudita altera parte” (ossia senza che sia stata sentita l’altra parte, cioè, l’imputato) su richiesta del PM, quando all’imputato deve essere applicata solo una pena pecuniaria.
Il fatto stesso che alla fine si è risolta con una ammenda la dice lunga sulla paventata ipotesi del reato di esercizio abusivo della professione.
Mi spiego meglio, ai colleghi non è stato notificato neanche l’avviso di garanzia, ne nessun altra forma di avviso che facesse presupporre che contro di loro si stava svolgendo un procedimento penale, erano assolutamente all’oscuro di tutto e si sono visti condannare al pagamento della sanzione pecuniaria di euro 250, un po’ per come accade nelle multe del codice stradale, dove prima si riceve la multa e solo dopo se si ritiene di avere ragione si fa opposizione al Prefetto o al Giudice di Pace.
In questo caso, vengono a mancare pertanto sia l’udienza preliminare che il dibattimento e la richiesta motivata del PM va presentata direttamente al giudice per le indagini preliminari “entro il termine di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato” (art. 459 c.p.p.), con l’indicazione della misura della pena.
I presupposti per tale richiesta sono:
che si tratti di reati perseguibili d’ufficio;
che sia stata sporta validamente querela, nei reati perseguibili a querela e che il querelante non abbia nella stessa dichiarato di opporvisi;
che debba applicarsi una pena pecuniaria, anche se in sostituzione di una pena detentiva;
Tale procedimento non è in ogni caso consentito qualora debba applicarsi una misura di sicurezza (fermo o arresto).
Se il giudice accoglie la richiesta, emette decreto penale di condanna senza che l’imputato ne sia minimamente a conoscenza.
Avverso tale decreto, l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, possono presentare opposizione nel termine di gg. 15 dalla notifica del decreto stesso.
Ed è quello che l’AADI sta facendo in queste ore.
Con l’atto di opposizione l’imputato, può richiedere il giudizio immediato, abbreviato o il patteggiamento.
Se però manca l’opposizione, il decreto di condanna diventa esecutivo, e quindi non più impugnabile, nel caso in cui invece l’imputato procede con l’opposizione al decreto, il giudice è costretto ad aprire un procedimento penale vero e proprio con le parti, i testi e il dibattimento.
Il carattere premiale del decreto di condanna è dato anche dal fatto che non comporta la condanna al pagamento delle spese processuali, l’applicazione di pene accessorie, e non ha efficacia di giudicato dei processi civili ed amministrativi.
Il reato inoltre si estingue qualora l’imputato non commetta un altro reato della stessa indole nel termine di cinque anni, in caso di delitto, e nel termine di due anni, nel caso di contravvenzione.
La domanda sorge spontanea, come mai nella denuncia querela non è stata espressamente fatta menzione alla volontà di non procedere per decreto?
In effetti se si fosse esplicitata la cosa, il PM facendone richiesta al GIP avrebbe dovuto fare istanza di rinvio a giudizio e quest’ultimo verificati gli atti, avrebbe dovuto procedere facendo partire il vero e proprio processo con tanto di contraddittorio tra le parti, testi, perizie ecc…
Ecco quindi svelato l’arcano, i 73 infermieri sono stati condannati per decreto, senza possibilità di difendersi in un aula di giustizia e senza una sentenza di condanna espressa da un giudice a seguito di un contraddittorio tra le parti, cosa che li avrebbe sicuramente scagionati da ogni addebito come è gia avvenuto in passato per altre decine di procedimenti simili.
Quello che in queste ore stiamo tentando di fare è appunto coinvolgere i colleghi condannati ingiustamente a fare opposizione al decreto e a richiedere che venga istruito un vero procedimento penale nel quale il penalista convenzionato con l’AADI potrà confutare le tesi del querelante e del PM titolare del procedimento, chiedendo l’archiviazione perché il fatto non costituisce reato.
Non vi è infatti, un abuso della professione, perché la laurea triennale in infermieristica è di per sé titolo abilitante, la professione e l’eventuale iscrizione al collegio è riferibile solo a coloro che decideranno di svolgere la loro professione come liberi professionisti al di fuori delle aziende ospedaliere o delle cliniche private convenzionate con il SSN.
Rimaniamo comunque in attesa degli sviluppi della vicenda, e informeremo tutti attraverso altri articoli quando tutto si sarà definitivamente chiarito e concluso.
Il Direttivo dell’A.A.D.I.
Così si concludeva l’articolo sulla tassa OPI e, infatti, trasformando il dossier che potete scaricare, il penalista Avv. Luca Ripoli, proprio sulla scorta di quanto qui dedotto dall’AADI (e non solo lui) fece assolvere i propri clienti condannati in appello.
Quindi l’acqua calda l’abbiamo inventata noi e la usiamo da almeno 10 anni visto che il ns. Presidente risulta non iscritto all’albo da tale periodo perché il Policlinico, benché reiteratamente diffidato, si è sempre rifiutato di pagare la tassa e l’OPI non l’ha mai pretesa, fino ad ora.
ADI
ASSOCIAZIONE AVVOCATURA DIRITTI
INFERMIERISTICI