Coronavirus, il 63 per cento delle vittime e il 46,8 dei casi positivi è in Lombardia, che da sola ha l’80 per cento dei morti di tutta la Cina. Come è possibile? Come mai il Veneto, che di fatto ha registrato il primo caso contemporaneamente a Codogno, è riuscito a limitare l’epidemia con più efficacia? La stessa Emilia-Romagna, il cui primo focolaio era collegato direttamente a quello del Lodigiano, è in sofferenza, ma ha un sistema sanitario che ancora sta tenendo. A un mese dall’inizio dell’emergenza, è giusto dire che errori sono stati commessi in Lombardia: il contagio è esploso proprio all’interno degli ospedali. Se nel piccolo ospedale di Codogno, 20 febbraio, i medici possono essere stati colti di sorpresa, commettendo l’errore fatale di tenere il paziente uno in pronto soccorso insieme agli altri malati prima che un anestesista avesse l’intuizione di effettuare il tampone, resta più ardua da comprendere l’incertezza della risposta, tre giorni dopo, ad Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, quando furono trovati due pazienti positivi a Covid-19.
Due operatori sanitari hanno scritto ad Avvenire raccontando: «A seguito della diagnosi di positività di alcuni pazienti ricoverati in medicina e transitati dalla chirurgia e dal pronto soccorso, veniva presa la decisione di chiudere il pronto soccorso dell’ospedale. Solo poche ore dopo, incomprensibilmente, veniva riaperto, senza nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione immediata di triage differenziati né di percorsi alternativi per i pazienti che erano subito tornati». Effetto drammatico: «Nei giorni successivi diversi operatori, sia medici sia infermieri, del pronto soccorso ma anche di altri reparti di degenza, risultavano positivi ai tamponi per Covid-19, molti essendo sintomatici». In sintesi: negli ospedali lombardi non si è riusciti ad applicare forme di prevenzione efficace per evitare che un paziente infetto trasmettesse il virus ad operatori e altri malati. Mancavano i percorsi separati e forme di isolamento immediato.
BERGAMO
A seguire altri errori hanno favorito la valanga: si è sottovalutato quanto stava avvenendo a Bergamo e a Brescia. Bisognava avere il coraggio di chiudere prima. A tutto questo si aggiunge anche la sfortuna, come il calendario che ha previsto la partita di Champions Atalanta-Valencia il 19 febbraio a Milano, dove decine di migliaia di bergamaschi si sono ritrovati nello stesso stadio. Il professor Massimo Galli, direttore di Malattie Infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, è stato tra i primi a sottolineare che in Lombardia il colpo è stato così pesante perché il contagio si è diffuso negli ospedali, anche se ha difeso i colleghi. Oggi spiega: «Da noi il virus ha potuto circolare libero per almeno quattro settimane prima che ci si accorgesse della sua presenza. Negli ospedali ci si aspettava qualcuno che poteva arrivare dalla Cina. Un ospedale di provincia, di fronte a quella che poteva essere brutta ma banale polmonite virale, al coronavirus non pensa, ed ecco dunque che Codogno e Alzano Lombardo sono stati un amplificatore della malattia. Sia chiaro, non sto puntando il dito contro questi ospedali». Non sarebbe servito più coraggio con misure restrittive più tempestive a Bergamo e Brescia? «Col senno di poi si può dire tutto. Ma se vado a misurare la reattività degli altri paesi europei, mi viene da dire che l’Italia ha avuto reazione importante. Purtroppo non basta. E dobbiamo restare vicini alle persone a cui abbiamo chiesto stare in casa. Dobbiamo fare presto, in Lombardia, ma non solo in Lombardia. Ormai non ha più senso parlare di picco, perché ogni territorio, a partire da Roma, avrà il suo picco».
Redazione
Fonte
Il messaggero.It