Eroi per qualche mese, dimenticati in fretta: gli infermieri tra turni massacranti e stipendi bassi
Tanta gloria nel momento del bisogno, ma appena è diminuita l’attenzione, con il ritorno alla normalità gli infermieri sono tornati nel dimenticatoio. Con tutti i problemi di sempre che sono rimasti sul tavolo: personale insufficiente, aumenti di stipendio risibili e un diffuso senso di sfiducia e precarietà.
Eroi per qualche mese, dimenticati a fine emergenza. La parabola degli infermieri ha seguito la narrazione enfatica della fase di lockdown: tanta gloria nel momento del bisogno, ma appena è diminuita l’attenzione, con il ritorno alla normalità, la categoria non ha ricevuto risposte adeguate. Gli “eroi delle corsie” hanno ottenuto un bonus una tantum, con una cifra che è variata su base regionale. Ai più fortunati sono arrivati un migliaio di euro aggiuntivi. Meglio di niente, certo. Ma non c’è stato un intervento strutturale sia da un punto di vista economico che sotto il profilo del rafforzamento degli organici, salvo un ritocco introdotto dal decreto Rilancio. Tanto che all’appello, secondo le stime degli esperti aggiornate con “l’effetto quota 100”, potrebbero mancare in totale 76mila infermieri nei prossimi mesi. Un punto di partenza non proprio incoraggiante in caso di seconda ondata di epidemia.
Già oggi, secondo le stime della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), servirebbero 53.860 infermieri in tutta Italia per garantire un rapporto equilibrato con i pazienti. «La carenza complessiva è di oltre 20mila unità per poter fare fronte alle necessità legate al rispetto della normativa europea su turni e orari di lavoro nelle strutture del Sistema sanitario nazionale e oltre 30mila unità per rendere efficiente l’assistenza sul territorio», riferisce un dossier della Fnopi. Per capire la dimensione del fenomeno: in Lombardia, la regione flagellata dall’epidemia di Covid-19, sarebbero necessari oltre 8mila infermieri (5.231 sul territorio, 2.863 direttamente in ospedale). Non va meglio per il Lazio, secondo nella graduatoria, con un buco di 5.806 infermieri (2.999 sul territorio, 2.807 nei reparti ospedalieri), e per la Campania, che completa questo speciale podio, con la mancanza di 5.279 infermieri (suddivisi in 2.887 sul territorio e 2.399 in ospedale).
A questa carenza si è aggiunto il sovraccarico di lavoro determinato dallo tsunami dell’epidemia. Con le conseguenze, anche personali, del caso. Il tributo di sangue, pagato al virus, è stato elevato con la morte di quaranta infermieri (compresi i casi di suicidio) durante la fase più acuta dell’emergenza Covid-19. E soprattutto c’è un dato che fa impallidire: su circa 29mila operatori sanitari (tra medici, Oss e altro personale) infettati dal Coronavirus, ci sono stati almeno 14mila infermieri contagiati, circa il 47% di chi era impegnato in prima linea. Anche per questo motivo, il 15 ottobre gli “eroi in camice” hanno deciso di manifestare davanti alla Camera dei deputati per chiedere misure strutturali e non bonus. Suona poi come una beffa la mancata attuazione di misura prevista dal decreto Cura Italia: l’istituzione del «fondo, per il 2020, per l’adozione di misure di solidarietà per i familiari del personale medico, infermieristico e socio-sanitario, che abbiano contratto, in conseguenza dell’attività di servizio prestata, una patologia alla quale sia conseguita la morte per Covid-19». Palazzo Chigi non ha emanato il dpcm necessario a rendere esecutivo il provvedimento.
Il governo ha fatto qualcosa, come promesso dal ministro della Salute, Roberto Speranza: il decreto Rilancio ha previsto l’assunzione di 9.658 unità da impiegare nel ruolo dell’infermiere di comunità, la figura ideata per potenziare l’assistenza territoriale. Lo scopo del servizio è quello di diminuire gli accessi ai Pronto soccorso e abbattere il numero di ricoveri, grazie a risposte sanitarie tempestive. Ma, nonostante la buona volontà di Speranza, l’intervento non è all’altezza delle necessità. «Basti pensare che solo con l’aumento dei posti in terapia intensiva, servirebbero almeno 17mila infermieri in più», spiega a Fanpage Andrea Bottega, segretario nazionale di Nursind, il sindacato delle Professioni infermieristiche. I calcoli non sono lusinghieri. Solo in riferimento all’infermiere di comunità servirebbe più del doppio rispetto a quanto previsto. Il Centro studi della Fnopi ha stimato che per avere un servizio efficiente occorrerebbero oltre 21mila unità (a fronte dei 9.600 previsti dal governo), di cui almeno 3.500 solo in Lombardia. Altre 2mila servirebbero nel Lazio, e 1.925 in Campania. Ma anche Sicilia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna avrebbero bisogno di un incremento di personale di almeno 1.500 unità per offrire prestazioni adeguate sull’infermiere di comunità. «Si tratta – osserva Bottega – della classica coperta corta. Anche nella fase di emergenza sono state fatte delle assunzioni in fretta, ma spesso sono stati contratti a tempo determinato. Poi c’è stato uno spostamento di personale dal privato al pubblico, con il rischio di indebolire alcune strutture, in particolare le case di riposo».
Le responsabilità sono comunque spalmate su più anni e su governi di vario colore. Dal 2009 il Sistema sanitario nazionale ha perso almeno 12mila unità di personale infermieristico, in gran parte nel Mezzogiorno, a causa dei piani di rientro delle Regioni. La riduzione è stata certificata anche dall’Istat con un indicatore chiaro sulla carenza di organico: il 40% degli infermieri del Ssn è costretto a svolgere ore di straordinario. Altrimenti salta tutto il sistema.
Eppure l’aumento di infermieri garantirebbe un’assistenza migliore. Salvando migliaia di vite. Spiega ancora un dossier redatto dalla Fnopi: «Se ogni infermiere assistesse al massimo 6 pazienti, sarebbero evitabili almeno 3.500 morti all’anno». Gli studi pubblicati sulle riviste internazionali, Jama e British Medical Journal, confermano infatti che la presenza maggiore del 10% di infermieri abbatte il tasso di mortalità del 7%. E qual è la situazione in Italia? Ben lontana dal quadro ottimale: in media ogni infermiere assiste 11 pazienti. Nelle Regioni messe meglio il rapporto scende a 8, ma in quelle più colpite dai piani di rientro sanitari, c’è addirittura un infermiere ogni 18 pazienti. Il burnout in corsia è praticamente una certezza. La conseguenza è un potenziale incremento di mortalità che può raggiungere il +30%, indipendentemente dalla buona volontà del singolo operatore.
Come se non bastasse, da un punto di vista economico, non si è registrato alcun miglioramento. La busta paga base resta di circa 1.500 euro, compresi turni serali e giorni festivi. Il raffronto con i colleghi europei è amaro: in Germania, quasi la stessa cifra (1.400 euro) viene percepita per un monte di 28 ore di lavoro. La retribuzione lievita con gli avanzamenti di carriera e un maggior numero di ore, arrivando intorno ai 1.900-2.000 euro più altri benefit. Anche in Spagna la situazione è migliore con uno stipendio più alto di circa 400 euro in più rispetto all’Italia. Svezia e Belgio garantiscono un salario che nella Penisola è un miraggio, valicando la soglia dei 2mila euro. L’unico Paese con cifre più vicine a quelle italiane è la Francia, dove lo stipendio oscilla tra i 1.600 e i 1.800 euro. Resta il fatto che gli infermieri d’Oltralpe se la cavino leggermente meglio in confronto ai colleghi italiani. Nella fase di emergenza Covid-19, c’è stato qualche aumento un busta paga. Ma per un motivo semplice: molti infermieri sono stati spostati in terapia intensiva per assistere i malati gravi e hanno percepito l’indennità aggiuntiva, prevista dal contratto, di 4 euro al giorno. Di fronte a questo scenario, a poco servono gli elogi del governo, a cominciare dal suo numero uno, Giuseppe Conte. «Abbiamo apprezzato tantissimo il vostro coraggio. Abbiamo capito che c’era una resilienza, una volontà di non lasciarsi sopraffare da un nemico invisibile», ha scandito, a giugno, il presidente del Consiglio durante la cerimonia di ringraziamento del personale sanitario. Belle parole, certo, che non cambiano la situazione. «Siamo pagati – sintetizza il numero uno di Nursind Bottega – come diplomati e non come laureati».
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