COMMENTO A CASSAZIONE IV PENALE, 13 MAGGIO 2019 N. 20270
DOTT. MAURO DI FRESCO
PRESIDENTE ASSOCIAZIONE AVVOCATURA DEGLI INFERMIERI
Una primipara di 33 anni, affetta da linfoma di Hodgkin stadio II, era in cura presso il dipartimento di Oncologia Medica dell’azienda ospedaliera universitaria Policlinico di Palermo con protocollo antiblastico denominato ABVD.
Fra i farmaci da somministrare vi era anche l’antiblastico Vinblastina, il cui dosaggio era stato determinato nella misura di mg. 9, proporzionato alla superficie corporea della paziente, in modo corrispondente al protocollo medico applicato nel caso di specie, specificamente previsto dagli standard internazionali riconosciuti per la cura della patologia.
Terminato il I ciclo con esito soddisfacente, incoraggiante e privo di effetti collaterali, si recava presso il DH del summenzionato dipartimento per sottoporsi al II ciclo chemioterapico.
La prassi in uso nel DH prevedeva che l’infermiere trascrivesse la terapia da infondere ai pazienti dalla cartella clinica ad un foglio non ufficiale in uso al personale infermieristico posto sul carrello della terapia.
La paziente effettuava la visita medica e le veniva consegnato il documento di ricovero con ivi riportata la terapia che consegnava all’ufficio Accettazione e che, a sua volta, veniva trasmesso via fax all’UMACA (Unità Manipolazione Chemioterapici Antiblastici), ovverosia al laboratorio deputato alla preparazione degli antiblastici.
Qui, un infermiere del reparto di Oncologia, era incaricato della materiale preparazione dei farmaci, che venivano successivamente trasportati presso il reparto da un commesso e somministrati al paziente.
Il giorno del trattamento sanitario, il medico specializzando al III anno di corso, riportava sul foglio di accettazione una dose eccessiva di Vinblastina, aggiungendo uno zero ai 9 mg. prescritti e consegnava il documento alla paziente e perciò questa prescrizione raggiungeva l’UMACA.
La prescrizione non fu verificata dal tutor (medico volontario specializzato) né dal primario perché all’epoca era in ferie.
Intanto, uno studente infermiere, trascriveva la terapia da somministrare alla paziente, dalla cartella clinica al foglio da usarsi sul carrello dei farmaci, riportando i 90 mg. di Viblastina.
L’infermiera dell’UMACA, dottore in infermieristica, avvedutasi della mancanza del quantitativo di farmaco indicato nella prescrizione, telefonava al DH per chiedere se fosse disponibile in loco altro farmaco, considerata l’enorme quantità richiesta.
Rispondeva al telefono il medico specializzando che, confermato il dosaggio, le consigliava di contattare la caposala affinché provvedesse all’approvvigionamento del farmaco mancante.
Contattata la caposala e paventata l’impossibilità di preparare il farmaco in un’unica siringa, come di consueto avveniva, stante l’enorme quantitativo (1 fiala era costituita da 10 ml di solvente), la caposala le consigliava di versare tutto il contenuto in una fleboclisi.
Giunto il farmaco al DH, così preparato e con la scritta posta col pennarello sulla fleboclisi “VINBLASTINA 90 mg”, montata la flebo, la paziente si avvedeva della scritta ed esternava perplessità sulla dose, dieci volte superiore a quella sempre prescritta.
La dottoressa infermiera, così scrive la sentenza, le riferiva di stare tranquilla perché “è la stessa cosa che hai sempre fatto”.
Nel pomeriggio, un infermiere (non laureato) dell’UNEBA, apprendeva causalmente, dai commenti delle colleghe, che nella mattinata si era reso necessario reperire un importante quantitativo di Vinblastina, perciò, allarmato, chiamò in reparto per parlare con un medico strutturato che, effettivamente, confermò la prescrizione di 90 mg. di Vinblastina.
Così, accortosi dell’errore richiamato dall’infermiere, il medico contattava tempestivamente la paziente che rispose dal pronto soccorso perché aveva cominciato ad accusare i primi malesseri da cui, tuttavia, era poi stata rinviata al proprio domicilio.
Il medico oncologo, allora, la invitava a presentarsi l’indomani mattina presso il DH di Oncologia e, successivamente in reparto, dove la medesima veniva ricoverata, alle 11:50, per gastroenterite in quanto, la paziente riferiva comparsa di diarrea liquida (i giudici non sanno che la diarrea è sempre liquida altrimenti non sarebbe diarrea) e ripetuti episodi di vomito associati a coliche addominali.
Nella cartella non si faceva cenno al sovradosaggio del farmaco antiblastico.
Il primario, tornato dalle ferie ed informato di quanto accaduto, si recava dal direttore sanitario per edurlo sui fatti e lo rassicurava affermando di aver preso in mano la situazione.
Tornato in reparto, il primario manometteva la cartella clinica cancellando lo zero apposto in errore sul dosaggio farmacologico.
Intanto, il direttore sanitario, non sapendo della manipolazione documentale operata dal primario in cartella, informava tempestivamente la famiglia dell’errore commesso, ammettendo quanto avvenuto.
Intanto, le condizioni della paziente peggioravano e subentrava la pancitopenia, tanto da costringerla ad un trasferimento presso il reparto di rianimazione ove decedeva per arresto cardiaco.
Il Ministero della Salute interveniva prontamente per mezzo della Commissione multidisciplinare che individuava serie carenze del reparto di Oncologia e precisamente: totale assenza di interazione tra Azienda sanitaria ed Università; mancanza di comunicazione fra specializzandi universitari ed ospedalieri; clima conflittuale; gestione personalistica dei pazienti, tanto che in assenza dello strutturato che aveva in carico il singolo paziente, risultava difficile reperirne i dati clinici; dicotomia fra personale medico ed infermieristico con riconoscimento di eccessiva autonomia al secondo; mancanza di chiarezza sulle autorizzazioni alla prescrizione, preparazione, somministrazione dei farmaci antiblastici; presenza di prescrizioni con firma dello specializzando senza controfirma del medico strutturato; preparazione delle prescrizioni il giorno precedente la somministrazione dei farmaci, senza visita della paziente e senza controfirma del tutor; insufficiente controllo delle giacenze dei farmaci chemioterapici ed inadeguatezza dei frigoriferi; assenza di procedure valide per l’assistenza e la comunicazione con i pazienti; criticità del rapporto specializzando-tutor; eccessiva autonomia degli specializzandi; mancanza di un sistema di controfirma sulle prescrizioni; incertezza circa gli specializzandi presenti in reparto.
Con riferimento allo specifico settore infermieristico, l’ispezione rilevava: mancanza di un sistema di raccolta degli errori o quasi errori, al fine di evitarne il successivo verificarsi; falle di comunicazione; mancanza di adeguata formazione, risalendo il relativo corso obbligatorio di aggiornamento all’anno 2004; disorganizzazione nella preparazione dei farmaci; locali angusti tali da imporre che chi preparava i farmaci fosse obbligato anche a rispondere al telefono; mancata adozione della cartella infermieristica all’epoca dei fatti (in quanto predisposta immediatamente dopo la morte della paziente); mancanza di una scheda di allestimento contenente le generalità del paziente; l’indicazione dei farmaci da somministrare, i dosaggi per metro quadro di superficie corporea, la firma del preparatore che accompagnasse il farmaco al reparto, in modo da consentire il doppio controllo preparatore-somministratore.
Quindi, il reparto è stato chiuso per favorirne la riorganizzazione.
Dopo aver ripercorso la lunga ed articolata ricostruzione, sono state affrontate le singole posizioni delineando per ciascuno degli imputati, medici ed infermieri, i profili di colpa rimproverabili.
In primis va premesso che gli studenti e gli specializzandi non sono stati imputati perché l’errore commesso avrebbe potuto essere evitato se i rispettivi tutor avessero prestato la debita attenzione.
Dei loro errori rispondono i tutor, così come prevede il combinato disposto di cui agli artt. 40 e 51 C.P. e 38, co. 3 del D.Lgs. 17 agosto 1999 n. 368.
Il primario si difendeva addebitando ogni colpa alla disorganizzazione che esisteva già all’epoca del precedente primario e all’autonomia, non consentita, che lo specializzando avrebbe assunto senza autorizzazione e, comunque, ritenendosi incolpevole perché all’epoca dei fatti si trovava in ferie.
Comunque, il P.M. contestava al primario anche la dolosa falsificazione della cartella clinica, a mezzo della cancellatura del numero zero dopo il numero nove, dimostrando che tale falso era stato apposto al rientro dal viaggio, dopo aver avuto conoscenza dell’accaduto.
Inoltre, si contestava la prassi, effettivamente in uso, di far firmare le prescrizioni allo specializzando utilizzando il timbro personale del primario.
Agli infermieri, dell’UMACA e del DH, contestava, in virtù dell’art. 1, co. 3, lett. d) del D.M. n. 739/1994, l’assenza di ogni autonomia di valutazione riconosciuta alla professione infermieristica sulla critica da opporre al medico prescrittore e di ogni conoscenza sulla natura del farmaco da somministrare ed, in particolare, l’assenza di ogni metodologia preparatoria, avendo provveduto, l’infermiera dell’UMACA, alla preparazione “artigianale” di un farmaco, svuotando le nove fiale di Vinblastina in una sacca per fleboclisi, modificando le modalità di somministrazione (bolo) imposte dalle linee guida e, comunque, dalle legis artis.
Inoltre, si contestano alle infermiere, di aver accettato, passivamente, con un mero dialogo telefonico con lo specializzando, la conferma di una prescrizione potenzialmente letale, senza suscitare dubbi e perplessità che costituiscono il legittimo corredo professionale dell’infermiere, soprattutto se dottore.
Al medico strutturato si contestava l’omessa vigilanza e il reato omissivo improprio, per non aver agito a tutela della salute della paziente allorché venne informato dei fatti.
La caposala esce indenne dal giudizio perché la responsabilità dell’assistenza infermieristica è assunta esclusivamente dall’infermiere e la caposala non ha il controllo sulla modalità di esecuzione dell’assistenza e il consiglio di svuotare le fiale in fleboclisi si assumeva come ideale e non perito.
Le questioni giurisprudenziali che attengono, sempre, la responsabilità professionale sanitaria, sono principalmente due:
il principio di affidamento;
la posizione di garanzia.
Il principio di affidamento postula che, in base agli artt. 1218 e 1228 C.C., applicabili anche in ambito penale, così come gli artt. 40-45 C.P. sono parimenti applicabili in ambito civile, ogni dipendente della struttura sanitaria pubblica e privata, risponde dei danni provocati al paziente, nei limiti in cui è stato a contatto per svolgere la propria opera (c.d. contatto sociale) e ne risponde personalmente solo in caso di dolo e colpa grave (la legge 8 aprile 2017 n. 24 ha esteso la non colpevolezza anche alla colpa grave, ma la norma è fortemente criticata).
La responsabilità si trasferisce al successivo operatore sanitario quando il paziente ne viene a contatto e perciò il precedente non ne risponde più, a meno che il fatto antecedente da lui commesso non sia stato produttivo di quello successivo che abbia determinato l’insorgenza del danno (art. 41 C.P.).
La posizione di garanzia, espressione della massima tutela e protezione a vantaggio del paziente, si fonda sugli stessi principi surrichiamati e impone ai dipendenti sanitari di prendersi in carico gli utenti (pazienti) quando, per ragioni d’ufficio, devono garantire una prestazione di lavoro.
Il principio si è evoluto dal riconoscimento del rapporto contrattuale, non più aquiliano, oramai consolidato in giurisprudenza dalla sentenza Franzese (Cass. Pen. SS.UU., 11 settembre 2002 n. 30328), che si instaura tra ente sanitario e paziente.
Il paziente, una volta entrato nella sfera cognitiva del rapporto sanitario (c.d. contatto sociale), si affida e viene affidato dalla legge alla struttura medesima, che ne deve avere cura in maniera globale, proteggendo la persona da ogni pregiudizio che possa nuocere alla salute (finanche l’ambiente, inteso come zona di sicurezza, per cui il dipendente che non si attiva per prevenire infortuni al paziente, risponde per inadempimento).
L’affidamento crea un alone di sicurezza (o per meglio dire ci si impegna per crearlo), tanto da porre il paziente, benché in grado di intendere e volere e decidere con autodeterminazione, in una situazione di quasi-incapacità giuridica, soggetto passivo delle cure e delle attenzioni della struttura che lo ospita.
Perciò, l’ente risponde di ogni danno subito dal paziente perché ha il diritto di essere protetto da qualsiasi evento avverso, naturalmente nei limiti dei danni autoprovocati anche per incuria (rifiuto di attenersi alle prescrizioni) e del caso fortuito e della forza maggiore, se non conoscibili, prevedibili e perciò evitabili dall’ente affidatario.
Così delineati i due principi regolatori della responsabilità sanitaria e lasciando ad altre disamine le regole processuali (tra le più importanti il giudizio controfattuale della probabilità logica del nesso causale sulla responsabilità diretta sanitaria), gli imputati trovano il proprio antecedente logico e causale nelle negligenze, imprudenze ed imperizie del soggetto che lo ha preceduto, muovendo dalla disorganizzazione delle attività del reparto e dalla mancanza di controllo sull’operato di specializzandi ed infermieri, impreparati ed inesperti sia in ordine alla patologia che alla sua cura.
In special modo, il tutor non ha ottemperato a quanto previsto dall’art. 38, co. 3 del D.Lgs. 17 agosto 1999 n. 368 che stabilisce, in parte, quanto segue: “la graduale assunzione di compiti assistenziali e l’esecuzione di interventi con autonomia vincolate alle direttive ricevute dal tutore”.
Quindi, l’autonomia dello specializzando doveva essere vincolata dal tutore che ne risponde.
Comunque, emarginando le responsabilità mediche che qui non interessano, è interessante considerare i giudizi espressi sugli infermieri, per comprenderne, al meglio, i limiti professionali.
La Corte muove l’esame delle infermiere che, erroneamente, definisce “infermiere specializzate”, dalla normativa vigente, al fine di verificare la consistenza degli obblighi posti a carico delle imputate, avuto riguardo ai compiti alle medesime attribuite nello svolgimento della funzione tipica.
Una pluralità di disposizioni di natura legislativa e regolamentare, hanno profondamente mutato la natura dell’infermiere, disegnando l’autonomia operativa propria tipica della figura professionale.
Innanzitutto, la legge n. 43/2006, che individua i requisiti di accesso e quelli relativi all’abilitazione nonché la legge n. 251/2000 con cui viene stabilito, all’art. 1, che gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica, svolgono, con autonomia professionale, attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali, nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza.
Ed inoltre il già parzialmente citato D.M. Sanità del 14 settembre 1994 n. 739, ancora vigente che concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere, secondo il quale l’infermiere partecipa all’identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività; identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi; pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico; garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche; agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali; per l’espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell’opera del personale di supporto.
La Corte ha pertanto accertato che l’infermiere, lungi dall’essere un mero esecutore degli ordini del medico, è autonomo nell’esercizio delle proprie funzioni ( da qui viene meno l’ordine inteso come vincolo obbligatorio di un facere) e perciò deve filtrare tutto quello che gli perviene per elaborarlo nel proprio linguaggio scientifico e garantire al paziente una prestazione di elevata correttezza e professionalità.
Il medico, quindi, non può in alcun modo coartare la volontà dell’infermiere, in senso professionale, si intende, perché nel proprio ambito è autonomo.
L’infermiere, afferma la Corte (in verità come in altre precedenti sentenze), è una figura professionale che, per le competenze che le sono affidate, assume una specifica ed autonoma posizione di garanzia nei confronti del paziente nella salvaguardia della salute, della cura e dell’assistenza, il cui limite è l’atto medico, inteso come prescrizione vincolata ad una specifica finalità.
In poche parole, il medico prescrive e l’infermiere realizza lo scopo medico in maniera autonoma ma con risultato coerente alla legge dell’arte scientifica (legis artis).
In questo ambito, l’atto di somministrazione del farmaco è concepito, secondo la giurisprudenza di legittimità, come atto non meccanicistico, ma collaborativo con il personale medico, orientato in termini critici, al fine non di sindacare l’operato del medico, bensì per richiamarne l’attenzione su errori percepiti, ovvero per condividere gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita, cosa che le imputate non hanno fatto.
Rientra, in questo senso, fra gli obblighi dell’infermiere, la segnalazione di anomalie che egli sia in grado di riscontrare o di eventuali incompatibilità fra farmaci o fra la patologia ed il farmaco da somministrare o fra particolari condizioni (per es. allergie annotate in cartella o a sua conoscenza) e la cura prevista.
Accertato il reato di cui all’art. 589 C.P. e 113 C.P. in concorso (l’art. 589 sexies introdotto specificatamente dall’art. 6 della legge Bianco-Gelli non è applicabile alla fattispecie de qua perché il fatto è anteriore, perciò si applica al caso in disamina la legge Balduzzi), il medico strutturato veniva condannato ad anni quattro e mesi quattro di reclusione, con interdizione della professione medica per anni quattro e, il primario (rinviato alla Corte d’appello per la valutazione della falsità in atto pubblico) ad anni quattro e mesi otto di reclusione (rapporto di causalità per malagestio), con interdizione dalla professione medica per anni quattro.
L’infermiera del DH ad anni due e mesi sei e l’infermiera dell’UNEBA ad anni due e mesi otto, escludendo, per ambedue, l’interdizione dalla professione infermieristica.
In conclusione, la responsabilità professionale civile e penale sono assimiliate a quella medica e, peraltro, in altre sentenze, sono stati condannati esclusivamente gli infermieri ed assolti i medici, oppure gli infermieri hanno subito maggiori condanne rispetto ai medici, senza considerare che, spesso, in ambito ostetrico, le maggiori condanne vengono inflitte alle ostetriche e non ai medici.
Pertanto, l’evoluzione giuridica dell’infermiere deve tener conto di questi aspetti e di una maggiore professionalizzazione che non può essere distratta da compiti meramente esecutivi e igienico-domestico-alberghieri e, soprattutto, della necessità di ottenere un contratto specifico che riconosca, in tutti gli istituti contrattuali, tali responsabilità e
Avvocatura diritti infermieristici.
Aadi.
Redazione NurseNews. Eu