Un ampio studio su Lancet condotto in Australia suggerisce che il rapporto minimo di un infermiere ogni 4 pazienti (l’Italia ne ha in media 1 ogni 11) si traduce in meno morti, meno giorni di ricovero, meno complicanze. Ci guadagnano tutti: gli infermieri, i pazienti e le tasche della sanità.
I dati raccolti in 55 ospedali australiani dimostrano che quando il personale infermieristico è in numero sufficiente, gli infermieri fanno la differenza: salvano vite umane, accorciano la durata del ricovero, riducono notevolmente il rischio che il paziente torni in ospedale, facendo così risparmiare un milioni di euro alle strutture sanitarie, il doppio di quelli spesi per le nuove assunzioni.
Nello Stato del Queensland è stato adottato di recente il nuovo regolamento sul personale sanitario che stabilisce la presenza di un minimo di un infermiere per quattro pazienti durante i turni giornalieri. Nel nostro Paese, tanto per fare un confronto, ogni infermiere segue in media 11 pazienti con alcune regioni come la Campania dove il rapporto diventa di uno a 17.
Ebbene, il piano di assunzioni australiano ha dato i suoi frutti: il rapporto di 1 infermiere su 4 pazienti si traduce in un calo del 7 per cento delle probabilità di morte o riammissione e in una riduzione del 3 per cento della degenza ospedaliera. Insomma, con un numero di infermieri adeguato i pazienti vengono curati meglio.
E verrebbe da dire che potevamo anche arrivarci da soli. Sono anni che, almeno dalle nostre parti, la carenza del personale infermieristico viene denunciata dalle associazioni di categoria non solo per gli effetti deleteri sugli stessi operatori, che rischiano l’esaurimento nervoso per i turni massacranti, ma anche per i pazienti che inevitabilmente finiscono per essere trascurati.
Ma gli studi rigorosi condotti su un ampio campione, come quello australiano, servono per accendere i riflettori sul problema e per fornire solide fondamenta scientifiche su cui basare le richieste di un aumento del personale sanitario.
L’indagine ha coinvolto 400mila pazienti e 17mila infermieri di 27 ospedali dove a partire dal 2016 c’era stato un incremento del numero degli infermieri per arrivare a un rapporto minimo di 1 a 4 durante i turni di giorno e di 1 a 7 durante i turni di notte. I dati sono stati confrontati con quelli di 28 ospedali rimasti con un numero più basso di infermieri per paziente (1 ogni 6).
I ricercatori hanno calcolato in entrambi gli scenari le probabilità di morte a 30 giorni dall’ammissione in ospedale, il rischio di un nuovo ricovero nei sette giorni successivi alle dimissioni e la durata complessiva del ricovero. E hanno scoperto che la possibilità di morte è aumentata tra il 2016 e il 2018 del 7 per cento negli ospedali che non hanno adottato le politiche di aumento del personale ed è diminuita dell’11 per cento negli ospedali che hanno assunto più infermieri. Tra il 2016 e il 2018, la durata della degenza è diminuita del 5 per cento negli ospedali che non hanno attuato la ristrutturazione del personale e del 9 per cento negli ospedali che lo hanno fatto. Ulteriori analisi hanno infine dimostrato che un minor carico di lavoro pro capite per gli infermieri riduce la possibilità di morte e riammissione del 7 per cento e la durata della degenza ospedaliera del 3 per cento.
Secondo i calcoli dei ricercatori, grazie all’aumento del numero degli infermieri, in due anni sono stati evitati 145 morti, 255 nuovi ricoveri e circa 30mila giorni di degenza. Con un risparmio di 33milioni di dollari australiani (21milioni di euro).
«In parte la riluttanza ad adottare un rapporto minimo infermiere-paziente da parte di alcuni responsabili politici è dovuta all’aumento dei costi associati all’aumento del personale. I nostri risultati suggeriscono che questo atteggiamento è miope e che i risparmi ottenuti evitando nuove ammissioni ospedaliere e riducendo la durata del ricovero erano più del doppio del costo dell’assunzione dei nuovi infermieri necessari per soddisfare i livelli di personale richiesti», ha dichiarato Patsy Yates della Queensland University of Technology School of Nursing in Australia tra gli autori dello studio.
Redazione