In Italia, anche nell’ambito della pubblica amministrazione, due lavoratori o persino lo stesso in periodi diversi possono percepire retribuzioni con differenze del 40%, anche sotto la soglia di povertà. Succede se si somma un uso indiscriminato degli appalti al solo scopo di abbattere i costi e di contratti collettivi con paghe da 4-5 euro l’ora, che sembrano rispondere alla stessa esigenza.
Il fenomeno è di quelli che passano in sordina e non superano il filtro della grande informazione arrestandosi alle cronache locali, eppure ha un impatto drammatico sulla vita di centinaia di migliaia di lavoratori, tanto che oggi anche la giurisprudenza deve prenderne atto. Lo chiameremo “dumping contrattuale” e potremmo sintetizzarlo dicendo che come per gli economisti la moneta cattiva scaccia quella buona, altrettanto avviene coi contratti collettivi di lavoro.
Sanità: risparmiare sugli “eroi”
Che cosa sia il dumping contrattuale ce lo illustra in modo esemplare una lettera firmata dai portieri ed ex portieri dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza, inviata alla stampa della cittadina veneta nell’estate del 2019: “prima avevano un contratto ‘multiservizi’ stessa mansione e stessi livelli che riuscivano in qualche modo a garantire uno stipendio appena dignitoso. Con l’effettuazione della nuova gara effettuata dalla Azienda Zero i contratti sono stati cambiati, è stato applicato il CCNL dei servizi fiduciari e questo di conseguenza ha penalizzato i lavoratori, queste nuove condizioni hanno decurtato lo stipendio del 38% considerando anche la sottrazione della quattordicesima mensilità, una paga uguale a chi fa turni notturni o festivi, decurtazione scatti di anzianità; straordinari pagati una miseria. Chi non firmava veniva licenziato”. Risultato: “paghe da 4,60 euro lordi, 3,50 netti” in un appalto bandito da un’azienda pubblica di proprietà della Regione Veneto, Azienda Zero appunto. “Nata con la riforma della Sanità nel 2016, dopo un primo anno di rodaggio completo, il 2018, porta i primi risultati a palazzo Ferro Fini: vale a dire un risparmio di 135 milioni di euro per le casse regionali che derivano dalle minori spese per gli acquisti, visto che sono stati centralizzati. «Soldi che saranno investiti sempre in sanità», assicurano”, scriveva qualche settimana prima il Giornale di Vicenza. Insomma: per dare più risorse alla sanità si tagliano gli stipendi a chi già guadagna meno.
Del resto in epoca di “rigore di bilancio” regioni ed enti locali non guardano tanto per il sottile, anche quando si tratta di lavoratori impegnati nella lotta contro il covid: essere “eroi” non basta a garantirsi uno stipendio decente. Come nel recente caso dei 200 steward assunti per verificare il rispetto delle norme di sicurezza negli ospedali e negli ambulatori pubblici romagnoli dopo la fine del lockdown la scorsa primavera. Vista l’urgenza non c’erano le condizioni per bandire una gara specifica, per cui, dopo un’assunzione “emergenziale” di 6 mesi si decide di confermare i lavoratori allargando il campo di applicazione di un appalto già aggiudicato, quello con cui Intercent-ER, omologa emiliana di Azienda Zero, ha affidato i servizi di guardia armata, portierato e servizi di controllo della sanità regionale a un raggruppamento temporaneo di imprese formato da un’azienda di Udine e da una cooperativa di Parma. Il disciplinare di gara stabilisce che per quel tipo di servizio possono essere applicati sia il contratto collettivo multiservizi sia quello della vigilanza privata e dei servizi fiduciari o anche altro tipo di accordo purché conforme al codice dei contratti pubblici. Le due aziende aggiudicatarie fanno risparmiare alla sanità romagnola quasi un milione di euro presentando un’offerta di 3,7 milioni rispetto a una base d’asta da 4,6. Quando gli steward a dicembre vengono assunti scoprono immediatamente il perché. “Nel nostro territorio – ci spiega Marinella Melandri, segretaria della CGIL di Ravenna – il problema è stato il passaggio dei lavoratori dal contratto multiservizi applicato loro nei primi 6 mesi, che prevedeva una paga oraria lorda superiore ai 6,50 euro su 14 mensilità, a quello dei servizi fiduciari applicato dalle due aziende, che invece per i lavoratori inquadrati al livello più basso prevede 4,70 euro l’ora e inoltre ha solo 13 mensilità. Qui, anche grazie al nostro intervento, le assunzioni sono state fatte due livelli sopra, quindi siamo sui 5,50 euro e la perdita di salario è più contenuta. Nel resto della ASL romagnola ci sono situazioni differenti, in alcuni casi l’assunzione è stata fatta al livello più basso, in alcuni casi si è ricorsi alle agenzie di lavoro interinale”.
Nei giorni scorsi Adesso Trieste, formazione politica del capoluogo giuliano, ha denunciato il caso di una cinquantina di lavoratori addetti ai servizi di sorveglianza, biglietteria, bookshop e assistenza al pubblico dei musei triestini, assunti col contratto della vigilanza e dei servizi fiduciari e pagati 4,20 l’ora. “E’ una prassi ormai di lunga data. Il Comune non stanzia una cifra congrua e così facendo incentiva le imprese ad applicare contratti che non corrispondono, a nostro avviso, alle mansioni effettivamente svolte da questi lavoratori e che permettono di offrire ribassi del 25% finendo per mettere fuori gioco ditte applicano un contratto collettivo più vantaggioso per i lavoratori” spiega Riccardo Laterza, portavoce di Adesso Trieste. Ma qui c’è un elemento che rende il caso più grave. “Sì, perché la ditta che si è aggiudicata l’appalto, la Euro&Promos, è stata fondata da un membro della giunta regionale friulana, che oggi non è più alla guida della società, ma resta il maggiore azionista”. L’assessore in questione è Sergio Emidio Bini, assessore al turismo e alle attività produttive una giunta dello stesso colore di quella triestina. Anche se qui il colore politico sembra entrarci poco, perché la prima gara fu indetta nel 2009 dal sindaco Dipiazza (Forza Italia), portata a compimento dalla successiva giunta di Cosolini (PD) e bandita nuovamente da Dipiazza dopo la rielezione nel 2016.
Anche il tema dei conflitti d’interesse negli appalti pubblici del resto non è una novità. Una decina di anni fa a Torino la Rear, cooperativa vincitrice di alcuni appalti nei musei torinesi banditi dalle giunte di centrosinistra, decide di applicare ai propri addetti il contratto multiservizi Confsal-Unci – circa 5 euro l’ora – classico esempio di contratto-pirata, invece di quello siglato da Confcooperative con CGIL CISL UIL, e di licenziare due di loro perché avevano resistito alla riduzione di stipendio assistiti dai legali dall’Unione Sindacale di Base. Nel 2014 la Corte d’Appello di Torino condannerà la Rear a indennizzare il licenziamento, giudicato illegittimo, e a versare le differenze retributive tra i due contratti. E una volta tanto il caso salirà sulla ribalta nazionale quando il regista Ken Loach rifiuta il premio alla carriera al Festival del cinema di Torino in segno di solidarietà ai lavoratori licenziati (tra questi una lavoratrice del Museo del cinema). A capo della Rear fino alla sua nomina a presidente del consiglio regionale del Piemonte nel 2014 c’è Mauro Laus, consigliere regionale della Margherita e poi del PD, che dopo le dimissioni dalla carica di amministratore delegato lascia nel cda il fratello e la cognata (L’Espresso260914). Nel 2018 Laus viene eletto al Senato ed è il primo firmatario della proposta di legge del PD per l’introduzione di un salario minimo di 9 euro netti, che prevede “una sanzione per le pubbliche amministrazioni che intrattengano rapporti o eroghino contributi a soggetti che non garantiscono il salario minimo orario ai propri lavoratori” e una multa dai 5.000 ai 15.000 euro per le imprese.
L’intervento dei giudici
Oggi la pandemia rischia di essere un acceleratore di questo tipo di meccanismo. Ai primi dell’anno un articolo de Il Giorno rivelava l’utilizzo di questo escamotage da parte delle aziende del turismo milanesi per scaricare i costi della crisi sui dipendenti. Gli alberghi, anche quelli di lusso, abbandonano il contratto del turismo per il più conveniente CCNL multiservizi, quello che invece per gli steward romagnoli, come abbiamo visto, garantisce uno stipendio più dignitoso rispetto al CCNL vigilanza privata e servizi fiduciari, in una corsa al ribasso di cui non si vede il fondo.
In assenza di interventi di altra natura a fornire alcune indicazioni è la giurisprudenza: “La presunzione di sufficienza della retribuzione concordata dalle parti collettive nella sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza – recita la sentenza 1128/2019 del Tribunale di Torino – si scontra con la constatazione del rapporto di valore esistente tra la medesima – che, in quanto relativa all’orario ordinario a tempo pieno, costituisce l’unico reddito da lavoro su cui il lavoratore può far conto per sopperire alle sue esigenze di vita – ed il tasso soglia di povertà assoluta stimato dall’Istat per il medesimo periodo. Il ricorrente ha documentato senza incontrare alcuna contestazione da parte della convenuta che, nel 2015, il valore monetario del paniere di beni e servizi essenziali – quello al di sotto del quale si configura la povertà assoluta per un cittadino senza familiari conviventi di età compresa tra 18 e 59 anni che vivesse in un’area metropolitana del Nord, quale è il ricorrente – era stato individuato in € 984,64”. Anche in questo caso parliamo di un lavoratore che dopo aver prestato servizio per 7 mesi come receptionist a tempo pieno presso l’ARPA (altro ente pubblico) di Torino con contratto multiservizi , è stato riassunto con CCNL Vigilanza – Servizi Fiduciari passando da una retribuzione di 1.237,89 euro mensili (per 14 mensilità) a una di 930 (13 mensilità). Per un caso analogo anche il Tribunale di Milano (sentenza 3003/2019) ha accertato la “nullità e/o illegittimità dell’art. 23 del CCNL Vigilanza Privata – Servizi Fiduciari” (quello che fissa i minimi per le guardie non armate) “per contrarietà all’articolo 36 della Costituzione”, secondo cui il salario deve essere “proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro” prestato e in ogni caso sufficienti ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”.
Che fare?
Secondo alcuni la soluzione al problema è l’introduzione di un salario minimo orario per legge, come prevedono diverse proposte di legge avanzate in questa legislatura, tra cui quella del senatore PD Laus e quella dell’ex ministra del lavoro Catalfo. E anche l’UE di recente ha auspicato un intervento sull’adeguatezza dei salari o tramite questo istituto o attraverso la contrattazione collettiva. CGIL CISL UIL, pur con accenti diversi, esprimono scetticismo, perché – dicono – è una soluzione che depotenzierebbe la contrattazione collettiva, che in Italia copre oltre l’80% dei lavoratori rendendo superfluo la fissazione di limiti per legge. “La definizione di un salario minimo per legge – ci conferma la segretaria della CGIL di Ravenna – in generale provoca una tendenza all’appiattimento dei salari verso il basso, anche se per noi il modo in cui si stava affrontando il tema con la ministra Catalfo tutto sommato stava prendendo una piega abbastanza soddisfacente. Il vero problema piuttosto è che c’è una crescente polverizzazione della rappresentanza delle imprese, che alimenta una moltiplicazione dei contratti, che noi invece chiediamo di ridurre, e quando da un contratto si passa a più contratti le condizioni per i lavoratori peggiorano”. Nel caso degli steward – prosegue – “il problema è che il contratto dei servizi fiduciari andrebbe applicato solo dalle ditte di vigilanza, ma in Italia manca una legge che dica come vanno applicati i contratti”.
Per i promotori della campagna “Salario Minimo anche in Italia” invece salario minimo e contrattazione non sono in contraddizione, ma piuttosto “svolgerebbero funzioni diverse: il salario minimo legale garantirebbe dignità e sopravvivenza, due valori non negoziabili”, l’esistenza libera e dignitosa dell’art. 36 della Costituzione, senza invalidare “la prerogativa dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali di battersi per ottenere una retribuzione che garantisca un’esistenza ‘più che libera e dignitosa’”. Senza contare la funzione di disincentivo all’uso degli appalti per comprimere i salari. Per questa ragione la campagna, nata a novembre, nei giorni scorsi ha diffuso un video di sostegno proprio alle vertenze contrattuali dei lavoratori delle imprese multiservizi e della vigilanza privata
Ma come è possibile che lavoratori diversi o addirittura lo stesso lavoratore in periodi differenti, pur svolgendo le stesse mansioni, possano ricevere retribuzioni che differiscono anche del 40% e come si può intervenire? Lo chiediamo a Orsola Razzolini, docente di diritto del lavoro alla Statale di Milano, autrice di una memoria depositata alla Commissione lavoro del Senato sulla proposta di direttiva europea sui salari minimi e di un recente articolo su LaVoce.info220121, in cui appunto parla di salario minimo e di appalti. “Il problema qui è una disparità di trattamento che nel nostro ordinamento è ammessa salvo i casi in cui sia espressamente vietata. Le legge 1369/60, quella, per intenderci, contro il caporalato, obbligava le ditte appaltatrici, nel caso degli appalti di opere o servizi da eseguirsi all’interno delle aziende, ad applicare lo stesso contratto collettivo delle ditte appaltanti. Poi quell’obbligo è stato abolito nel 2003 dalla ‘legge Biagi’, col risultato paradossale che oggi c’è parità di trattamento tra i lavoratori interinali e quelli delle aziende in cui operano, ma non negli appalti. Basterebbe restaurare quella regola”. Dal punto di vista dei lavoratori poi non c’è solo l’articolo 36 della Costituzione. Da maggio infatti dovrebbe entrare in vigore la nuova disciplina sull’azione di classe risarcitoria, che permetterà al sindacato di intervenire senza che il singolo lavoratore apra una vertenza esponendosi a dei rischi.
Contratti collettivi come multiservizi e vigilanza privata e servizi fiduciari, che lo stesso CNEL ha definito “contratti omnibus”, cioè in parte sovrapponibili, consentono all’appaltatore di scegliere l’opzione più conveniente nel supermercato contrattuale, tenuto anche conto che nel 2019 il Consiglio di Stato ha confermato che in un appalto “la scelta del contratto collettivo da applicare rientra nelle prerogative organizzative dell’imprenditore con il solo limite della coerenza con l’oggetto dell’appalto, per cui la stazione appaltante non può imporre l’applicazione di un CCNL”. Insomma le imprese, spesso incentivate dal meccanismo degli appalti al ribasso – spostano forza-lavoro dal campo di applicazione di contratti più costosi – turismo, igiene ambientale, sanità, beni culturali – ad altri meno onerosi che contemplano mansioni analoghe. Il contratto cattivo scaccia quello buono, appunto. “Un problema – spiega la Razzolini – che dipende dalla incontrollata moltiplicazione dei CCNL e delle categorie, perché se è vero che il codice dei contratti pubblici prevede che la ditta appaltatrice debba applicare un contratto sottoscritto dai sindacati maggiormente rappresentativi in vigore per il settore e per la zona in cui si eseguono le prestazioni, il ricorso al subappalto può consentire spezzettamenti del settore e, di conseguenza, l’applicazione di CCNL trasversali e omnibus – come multiservizi o vigilanza e servizi fiduciari – che, pur se stipulati da organizzazioni rappresentative, consentono di abbassare il costo del lavoro all’interno della filiera”.
L’Italia a un bivio: modello Cipro o Austria?
La Confederazione Europea dei Sindacati ha analizzato i minimi contrattuali nei paesi come l’Italia, dove non c’è un salario minimo legale e i minimi sono fissati esclusivamente dalla contrattazione collettiva, e ne ha concluso che “negli Stati nordeuropei Danimarca, Finlandia e Svezia i salari più bassi fissati dalla contrattazione nei tradizionali settori a bassa retribuzione come parrucchieri, pulizie e accoglienza sono compresi tra i 10 e i 12 euro l’ora. In Austria siamo di poco sotto ai 9 euro (10,40 se teniamo conto delle due mensilità aggiuntive). In Italia siamo tra i 6 e i 7 euro e a Cipro in alcuni settori tra i 4,50 e i 5,50”. Il risultato è che in Italia dal 2010 al 2019 i working poor sono saliti dal 9,5% al 12,2% (+28%) e solo Regno Unito e Ungheria hanno fatto peggio (Benchmarking Working Europe, Fig. 2.21). Insieme all’UE di recente anche l’OIL ha sottolineato i potenziali vantaggi dello strumento salario minimo simulando i potenziali effetti (a) della piena applicazione del salario minimo a tutti i lavoratori di un paese e (b) questa prima condizione più l’innalzamento del salario minimo fino al 67% del salario mediano (Global Wages 2020, Fig. 11.1). I risultati di questa simulazione paese per paese offrono un’indicazione interessante: in ambo i casi l’Italia ne trarrebbe un vantaggio più di tutti i paesi europei attualmente privi di salario minimo in termini di riduzione delle diseguaglianze (misurate con ambo gli indici Palma e Gini).
I processi di esternalizzazione rappresentano uno degli strumenti di cui le aziende private si avvalgono per abbattere il costo del lavoro e di cui l’amministrazione pubblica approfitta per “rimettere in ordine” i propri conti, con quali risultati lo si è visto: lavoratori che operano nel perimetro dell’amministrazione pubblica con retribuzioni al di sotto della soglia di povertà e disegueglianze retributive fino al 40% a parità di lavoro svolto. Un innalzamento dei minimi salariali, così come il ritorno all’obbligo di utilizzare un unico contratto di settore negli appalti appaiono la via maestra per eliminare le esternalizzazioni fatte al solo scopo di abbattere il costo del lavoro e mantenere solo quelle fondate funzionalmente. Insomma una cosa è che un museo dia in appalto le biglietterie, altra è che si affidi a uno studio legale esterno perché non ha uno proprio. Per l’Italia la scelta è tra il modello sociale di Cipro e quello dell’Austria. Il covid dovrebbe averci insegnato che spesso anche nella pubblica amministrazione “chi più spende meno spende”.
L’articolo è tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 5 febbraio.