La ricetta infermieristica non è solo appannaggio dei paesi anglosassoni e della Scandinavia. Nell’Unione Europea è diffusa e prevista da precise direttive. Che in Italia non si applicano. Il dibattito lo apre un comunicato del sindacato infermieristico Nursing Up guidato da Antonio De Palma. Per farmaci o dispositivi, la ricetta dell’infermiere in Europa è oggi diffusa in Danimarca, Norvegia, Svezia, Estonia, Finlandia, Regno Unito, Irlanda ma anche Olanda, Francia, Cipro; da qualche giorno la ammette la comunità di Madrid, prima autonomia in Spagna. In Gran Bretagna l’infermiere prescrive da 30 anni e in Svezia da 28. Metà dei paesi UE affronta l’aumento delle cronicità e delle incombenze d’équipe estendendo la ricetta all’infermiere. Alcuni paesi abilitano solo l’infermiere specialista nella sua branca, altre chi ha la laurea magistrale, in altre si prescrive anche con la laurea triennale. Più ancora del medicinale è diffusa la prescrizione di dispositivi sanitari. Per armonizzare le diverse situazioni nel 2011 è arrivata la direttiva europea 83; l’Italia avrebbe dovuto conformarsi entro il 25 ottobre 2013 ma non lo ha mai fatto. De Palma sottolinea come per rimediare si dovrebbe prevedere la prescrizione diretta sia di presidi per l’assistenza infermieristica, della quale l’infermiere è titolare e responsabile, sia di farmaci sulla base di protocolli condivisi con i medici. Doctor33 ha chiesto un commento a Maurizio Zega Presidente dell’Ordine degli Infermieri di Roma e coordinatore del gruppo di lavoro sulla prescrizione infermieristica della Federazione FNOPI che effettuò qualche anno fa il primo sondaggio in materia a livello europeo. «Il quadro normativo italiano è anacronistico. Tra i retropensieri in Italia c’è un po’ la diffidenza sul “nuovo”, ma ricordo che in Europa tra i pur diversi criteri che regolano la prescrizione infermieristica, il comune denominatore è che all’infermiere si chiedono capacità professionali certificate e acquisite in corsi di specializzazione approfonditi. Altro timore, di chi poco conosce i meccanismi della spesa: allargando il novero dei prescrittori il SSN potrebbe finire in passivo. Invece avviene il contrario: dove prescrive l’infermiere si risparmia».
«Da noi – prosegue Zega -la spesa per farmaci e presìdi tende in realtà ad alzarsi per via della lontananza fisica di chi prescrive dal malato e da chi gli presta le cure. Ho potuto sperimentare, in relazione ai dispositivi sanitari, che spostare l’atto prescrittivo dal medico a chi fa più assistenza diretta al paziente crea le condizioni per un controllo migliore dei costi. Alcune aziende sanitarie hanno disposto che l’indicazione, ad esempio, nelle “ferite difficili”, i decubiti, arrivasse alla farmacia ospedaliera solo su prescrizione dell’infermiere specialista. Se prima ogni reparto chiedeva alla farmacia di fare scorta di presìdi e ne restavano di inutilizzati a fronte di una maggior spesa, ora i presidi arrivano di volta in volta su richiesta dell’infermiere, non ci sono sprechi, si spende meno, il servizio è apprezzato. Tuttavia, quando il paziente è dimesso sul territorio, la ricetta per la quasi totalità dei dispositivi è rimessa dal Dlgs 502/92 al medico di famiglia, se si eccettua qualche regione che ha autorizzato il medico di distretto. In questi casi l’indicazione del Mmg è spesso generica, specie in situazioni in cui sono disponibili “device” ad hoc. E’ un problema che si presenta in varie discipline: ad esempio, con i pazienti stomizzati gli infermieri specialisti in ospedale utilizzano diverse tipologie di placche e sacchetto, ma quando il paziente torna a casa le loro funzioni afferiscono al medico di famiglia che non lo stesso grado di definizione del problema… e che forse, con il carico crescente di lavoro, credo potrebbe giovarsi dell’ausilio di un altro professionista. Superare certi paradossi ci consentirebbe di dare risposte uniformi ai malati di tutto il paese utilizzando il personale disponibile. Credo che se gli ordini di Medici ed Infermieri affrontassero il problema insieme risolveremmo questo problema in pochi giorni».
Perché l’Italia non applica la direttiva UE 83/2011? «Tendiamo a fare i compiti quando proprio ci stanno per bocciare, com’è stato per la direttiva 66/2003 sull’orario di lavoro, applicata negli ospedali pubblici solo nel 2020. Ma la direttiva 83 trae le radici a sua volta dalla Dichiarazione OMS del ’99: prende atto dell’emergenza legata alle malattie croniche; al netto delle pandemie, la priorità in Italia sono 12 milioni di anziani con una qualche fragilità, trattati per lo più a casa loro; serve personale per intervenire sui loro bisogni. Lo ha detto anche Silvio Garattini un anno e mezzo fa: è ora di dare all’infermiere la chance di prescrivere. Nelle case di comunità olandesi -dice Zega -tutto il trattamento del diabete di 2° livello è in mano ad infermieri; in linea di massima bastano le competenze acquisite nel nostro paese per prendere in mano la gestione del malato». Per la cronaca, ci sono ambiti dove oggi gli infermieri italiani possono specializzarsi. Abbiamo citato stomatoterapisti e “ferite difficili”, ma ci sono anche cateterismo centrale ed emergenza urgenza, per non parlare dell’infermiere di famiglia e comunità. Per Zega il problema centrale per l’evoluzione dell’infermiere in Italia -molto più del loro timore dei medici di invasioni di loro competenze- è l’impossibilità di fare carriera. «Se il management infermieristico ha un percorso tracciato, il collega che vuole crescere nella clinica con l’attuale contratto resta allo stesso livello per sempre, ogni competenza che conquista alla fine è un’incombenza in più a parità di stipendio con il collega meno impegnato: se siamo da sei anni in caduta libera per iscrizioni ai corsi di laurea, il problema è innanzi tutto di prospettive personali».
Fonte
DOCTOR33
Redazione NurseNews.eu