Il rapporto di causalità materiale tra il lavoro e il verificarsi del rischio: limiti e ambito delle responsabilità del datore di lavoro e del lavoratore.
IL NESSO DI CAUSALITÀ TRA LA CONDOTTA E L’EVENTO IN GENERALE
Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro perseguono il fine di apprestare una tutela ferma e completa al lavoratore. La normativa affronta infatti con particolare rigore il nodo della responsabilità del datore di lavoro; questi deve non solo predisporre le misure di sicurezza idonee e impartire le direttive atte al perseguimento di questo scopo, ma deve altresì costantemente controllarne il rispetto da parte dei lavoratori.
Tale rigore ispira tutta la normativa antinfortunistica e, conseguentemente, esso permea anche il tema del nesso di causalità tra la condotta e l’infortunio.
Proprio per tale motivo, la giurisprudenza di legittimità si è sforzata di focalizzare il giusto punto di equilibrio tra esigenze di prevenzione, a tutela dei beni primari della vita e della salute dei lavoratori, ed i principi costituzionali che impongono una responsabilità penale sorretta da colpevolezza.
A tal fine, per poter formalizzare l’addebito colposo è necessario primariamente verificare la sussistenza del rapporto di causalità materiale tra il lavoro ed il verificarsi del rischio. Come infatti ha insegnato Carnelutti, l’infortunio può ritenersi avvenuto in occasione del lavoro quando sia stato il lavoro a determinare il rischio di cui è conseguenza l’infortunio stesso.
Non è quindi né necessario né sufficiente che l’infortunio sia avvenuto durante l’orario di lavoro e sul luogo di lavoro, ma è invece fondamentale che il rischio del verificarsi dell’evento dannoso sia stato posto in essere dal lavoro.
Tante pronunce, in punto di nesso causale, hanno infatti riconosciuto che ove sussista un nesso eziologico tra prestazione lavorativa ed evento lesivo, la responsabilità del datore di lavoro sia configurabile anche qualora l’infortunio non sia ascrivibile ad un rischio tipico della prestazione lavorativa, con la conseguenza che anche il rischio generico collegato allo svolgimento di una determinata attività è addebitabile al datore di lavoro.
Sempre in ossequio al particolare rigore cui sopra accennato, la Corte di Cassazione ha inoltreaffermato che per la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta e l’evento è necessario esufficiente che la condotta del lavoratore sia comunque inerente all’esecuzione del lavoro e posta in essere in connessione con lo svolgimento del medesimo.
In relazione all’estensione della responsabilità del datore di lavoro e quindi alla sussistenza del nesso eziologico, la materia infortunistica prevede che l’obbligo di questi di assicurare la sicurezza nel luogo di lavoro si estenda anche ai soggetti che nell’impresa abbiano comunque prestato la loro opera, indipendentemente dalla forma giuridico/contrattuale utilizzata per lo svolgimento della prestazione [1]. Tale obbligo è di così ampia portata che non può distinguersi tra lavoratore subordinato, altro soggetto a questo equiparato o anche persona estranea all’ambito imprenditoriale, purché sussista il nesso causale tra l’infortunio e la violazione della disciplina antinfortunistica.
Non spezzerà il nesso causale tra condotta ed evento neppure la circostanza che l’infortunio siaavvenuto a danni di terzi: la normativa prevede infatti che il datore di lavoro debba tutelare anche tutti coloro che, per un qualsiasi legittimo motivo, accedano nell’ambiente lavorativo, a prescindere da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa. Fondamentale a tal fine è il dettato dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro è garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell’impresa; laddove egli non ottemperi a questo obbligo, l’evento lesivo verrà al medesimo ricondotto in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 comma 2 c.p.
Sempre nel tentativo di apprestare una tutela il più ampia possibile al lavoratore, le norme sul punto prevedono l’estensione di responsabilità anche ai responsabili del servizio di prevenzione e protezione i quali quindi svolgono all’interno dell’impresa una funzione di mera consulenza. Avendo questi l’obbligo giuridico di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi legati all’attività lavorativa e fornendo le adeguate indicazioni tecniche per risolverli, essi divengono garanti degli eventi che si verifichino in conseguenza della violazione dei suddetti doveri [2].
Tanto detto in merito al particolare rigore con il quale è stata affrontata la suddetta materia, è stato da molti affermato che per far luce su un argomento così ricco di difficoltà e purtroppo sempre più presente nelle aule di udienza sia necessario tenere ben distinte le problematiche relative alla causalità da quelle relative alla colpevolezza.
La vicenda che ha fatto da scenario per profonde riflessioni anche e soprattutto in punto di nesso causale è stata quella dell’amianto.
In relazione a tale problematica, infatti, le numerose sentenze danno atto della mancanza di leggi scientifiche sulle quali vi sia unanime consenso e tale deficit conduce a pronunce dagli esiti spesso differenti.
Con riferimento al tema del nesso causale, in molti hanno rilevato che pur essendo passati più di dieci anni dalla sentenza Franzese, ancora regni qualche incertezza in ordine agli orientamenti giurisprudenziali assunti sino ad oggi.
La giurisprudenza più recente si riporta infatti alla sentenza Franzese allo scopo di utilizzare i rigorosi criteri nell’accertamento del nesso causale che essa indica relativi al grado di certezzaprobatoria che deve essere raggiunto per addivenire ad una condanna.
In materia di causalità dell’infortunio collegata all’ esposizione all’amianto, per lungo tempo la giurisprudenza si è basata sulla teoria dell’aumento del rischio, ma tale criterio pare da ultimo essere superato dal paradigma della spiegazione causale.
Il problema si manifesta in tutta la sua pregnanza laddove vi siano due leggi scientifiche alternative ugualmente valide, accreditate ed utilizzabili nel caso concreto.
La Corte Suprema di Cassazione con la famosa sentenza Quaglierini [3] ha ricordato come, mentre sono pacifici i nessi causali tra esposizione ad amianto ed asbestosi, in relazione alle dinamiche causali del mesotelioma pleurico si contrappongono due leggi scientifiche alternative: da un lato quella che considera il mesotelioma come una patologia dose-dipendente, dall’altro quella che lo considera come conseguenza di esposizioni anche di modestissima entità al momento dell’innesco (dose – killer) e di fatto indifferente alle successive esposizioni. In base alla prima teoria l’iter della malattia è condizionato dall’incremento o dall’aggravarsi dell’esposizione; in virtù della seconda, invece, una volta assunta la prima dose – killer divengono irrilevanti le ulteriori esposizioni.
In ipotesi di tal fatta, la decisione Quaglierini ricorda che, essendo il criterio principale dell’accertamento causale quello dell’elevata credibilità logica e razionale, il giudice è tenuto non solo a dare conto delle ragioni per le quali ha ritenuto di accogliere quella determinata legge scientifica, ma deve anche escludere l’esistenza di possibili cause alternative nella produzione dell’evento.
Pertanto, laddove non esista una legge universale che consenta di stabilire con certezza le cause di un determinato evento, inevitabilmente si apre il ricorso alle leggi statistiche e (come nel caso dell’amianto) alle rilevazioni epidemiologiche. Molto si è discusso sull’utilizzabilità di queste applicazioni ai fini dell’accertamento del nesso causale. Invero, le leggi statistiche non sono in grado di “spiegare” un fenomeno, ma solo di “enumerarlo”; le rivelazioni epidemiologiche, altresì, sono utili per lo studio dei fenomeni patologici, ma certo non contribuiscono a individuare i possibili nessi causali.
Date quindi queste difficoltà nell’accertamento del nesso causale, molte pronunce hanno dato riscontro di come l’utilizzo di tali leggi scientifiche determina la violazione del principio della personalità della responsabilità penale perché, appunto, non dà risposte univoche alla questione sull’accertamento della causalità individuale del singolo caso.
Sempre in tema di morti per amianto, il filo rosso del particolare rigore si palesa ancor più laddove si ritiene dimostrato il nesso causale tra esposizione ed evento infausto ove, pur non risultando in concreto possibile determinare con esattezza il momento di insorgenza della malattia, si raggiunga comunque la prova che la condotta doverosa omessa avrebbe potuto incidere anche soltanto sul tempo di latenza o sul decorso della malattia [4].
In altre pronunce, sempre relative a casi di omicidio colposo per esposizione del lavoratore ad amianto poi deceduto per mesotelioma pleurico, pur in assenza di dati certi sull’epoca di maturazione della malattia, è stato ritenuto sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva dei responsabili aziendali e la malattia anche nel caso in cui tale condotta sia intervenuta per una parte soltanto del periodo di esposizione ad amianto del lavoratore poi deceduto, in quanto anche in caso di malattia già insorta l’omissione del datore di lavoro ne riduce i tempi di latenza o, in caso di malattia insorta successivamente, ne accelera i tempi di insorgenza [5].
Di rilevante importanza, ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso causale, è anche la tematica relativa alla ricorrenza dell’elemento causale alternativo. Laddove infatti si sia in presenza di patologie neoplastiche multifattoriali, la sussistenza del nesso causale non può essere esclusa sulla base di un ragionamento astratto di tipo deduttivo che si limiti a riconoscere la ricorrenza di un elemento causale alternativo di innesco della malattia, dovendosi invece procedere ad una puntuale verifica – da svolgersi in concreto ed in relazione alle peculiarità di ogni singola fattispecie – relativa all’efficienza determinante dell’esposizione dei lavoratori a specifici fattori di rischio nel contesto lavorativo nella produzione dell’evento fatale (nella fattispecie il nesso causale era stato ritenuto sussistente tra l’esposizione dei lavoratori al cromo esavalente ed il loro decesso, pur avendo alcune vittime l’abitudine al fumo di sigaretta, di per sé fattore causale alternativo di potenziale innesco del tumore polmonare) [6].
Come quindi analizzato in questa breve disamina, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa. Una recente pronuncia ha riconosciuto la sussistenza del nesso causale tra l’omissione del datore di lavoro e la morte del lavoratore allorquando risulti provato che se il primo avesse fornito al secondo per lo svolgimento dell’attività lavorativa un macchinario di ultima generazione, diverso ed efficiente, l’evento morte non si sarebbe verificato [7].
La giurisprudenza ritiene altresì irrilevante l’errore del datore di lavoro sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti dei lavoratori [8].
Invero, anche in caso di condotte errate poste in essere dal lavoratore medesimo, la giurisprudenza ritiene sussistente il nesso causale, in quanto al datore di lavoro è imposto anche di esigere il rispetto delle regole di cautela da parte del lavoratore. In tal senso il datore diviene “garante” anche della correttezza dell’agire del lavoratore [9].
In ossequio all’opera interpretativa della Suprema Corte di Cassazione, non esclude il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento lesivo o mortale patito dal
lavoratore neanche il compimento da parte di quest’ultimo di un’operazione che, seppure inutile e imprudente, non risulti eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo [10].
Da ultimo, ma non di minore importanza, è da registrare come sia irrilevante la colpa del lavoratore, eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni [11].
Il nesso causale, infatti, va ravvisato indipendentemente dal fatto che l’infortunio avrebbe potuto essere evitato o ridotto nelle conseguenze da una maggiore diligenza, attenzione e prudenza del lavoratore. In altre parole, la responsabilità del datore di lavoro non viene meno in caso di colpa del lavoratore; l’infortunio viene infatti imputato al datore di lavoro in forza della posizione di garanzia rivestita, sulla base del principio dell’equivalenza delle cause ex art. 41 comma 1 c.p.
Data l’importanza del bene della vita e della salute del lavoratore tutelati, l’orientamento consolidato dei giudici di merito e di legittimità ritiene che il nesso causale tra la condotta e l’evento possa e debba ritenersi insussistente solo in caso di condotte assolutamente abnormi del lavoratore in ossequio al dettato dell’art. 41 comma 2 c.p., come di seguito verrà analizzato.