«Crescere un figlio da sola e lavorando 14 ore consecutive per uno stipendio di 1.600 euro non è facile. In Arabia le condizioni sembrano essere molto più vantaggiose»
Questa è la storia di Arianna, un infermiera di 46 anni che, dopo aver lavorato per più di 10 anni in uno dei più importanti reparti chirurgici del Piemonte,si trova nelle condizioni di dover mollare tutto e trasferirsi in Arabia Saudita. L’idea di tentare questa strada le viene dopo aver ascoltato le parole di un sanitario durante un convegno sindacale del comparto. Durante l’intervista, Arianna spiega: ”Inutile dire che il nostro lavoro è usurante; l’ho sempre saputo, messo in conto, e la fatica in sé non mi ha mai spaventata. Da circa vent’anni lavoro nella sanità pubblica torinese, ma a dire il vero sembra una vita. Dopo tre anni di pandemia, risulta superfluo spiegare l’enorme senso di vuoto che noi sanitari proviamo. Per questo ho deciso di presentare domanda a un’agenzia di lavoro all’estero per il Medio Oriente.” Arianna, racconta poi di aver perso un collega, nonché il suo migliore amico, durante la pandemia – “Eravamo costretti a lavorare con le mascherine contate perché non ce n’erano abbastanza”. Sono esperienze simili a questa che stanno rendendo esausti molti colleghi infermieri. “Mi sento esausta perché sto crescendo mio figlio da sola e far conciliare scuola, formazione, sport con 14 ore di lavoro consecutive per 1.600 euro di stipendio al mese al netto degli straordinari e di qualche indennità, francamente mi sembra ingeneroso verso la nostra professione», precisa Arianna.
Perché scegliere proprio il Medio Oriente?
Sono sempre le parole di Arianna a darci la risposta: «Due giorni fa un collega mi ha girato un video dove uno di noi spiegava che cercano infermieri e le condizioni di lavoro sono stratosferiche.
Nello specifico, dicevano che offrono 5 mila euro al mese, 63 giorni di ferie all’anno, un viaggio aereo l’anno pagato, andata e ritorno, per poter tornare in Italia, casa pagata, come la palestra e altre attività per il tempo libero». Sembra quasi un’utopia se mettiamo a confronto quella realtà con la nostra. Un quarto di stipendio, 32 giorni l’anno di riposo e una carriera bloccata. Eppure sono tanti i video che vediamo nei diversi servizi televisivi dove si vedono chiaramente le condizioni di quegli ospedali. Strutture che appaiono nuove, ordinate, ricche di servizi collaterali, tutto trasmette la sensazione che la qualità del lavoro conta davvero. Arianna, dopo aver scritto ad Amsi (Associazione medici di origine straniera in Italia) per chiedere aiuto dal punto di vista burocratico, afferma: “ Tra di noi colleghi si parla molto di futuro e nessuno è fiducioso. Avere più denaro aiuta a essere sereni. E avere tempo aiuta a seguire meglio i propri figli e a godersi la vita privata. Avere entrambi sarebbe come vincere alla lotteria». Interviste come quella di Arianna, che ha preferito rimanere anonima per prudenza, ci danno un evidente idea di come oggi vivono i sanitari che si occupano della salute dei cittadini. “L’OMS dice che siamo in burn out; ci definisce bruciati, insomma dopo tutto quello che abbiamo vissuto con il covid”, conclude la collega.
Lascia decisamente l’amaro in bocca, dover constatare che l’Italia continua a formare le migliori eccellenze nel mondo sanitario per poi lasciarsele sfuggire e decidere, incredibilmente, di rimpiazzarle, come intendono fare dal Ministero della Salute, con professionisti provenienti dall’estero che non possiedono la nostra stessa formazione.
Ma la fuga degli infermieri italiani non è rivolta solo verso i paesi Arabi, ma anche verso Svizzera, Australia e strutture private all’avanguardia come il Cleveland Hospital.