Durante la terza edizione del corso di Cultura e Salute promosso dalla Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI), per sette lunedì, esperti, medici e ricercatori, personalità del mondo della scienza e della cultura discuteranno sul legame tra parola, medicina e benessere individuale.
«Nell’edizione di quest’anno – il medico chirurgo Enzo Grossi, uno dei relatori e coordinatore del corso di Cultura e Salute – affronteremo, sulla base di evidenze scientifiche, il potere delle parole, ovvero degli effetti benefici della comunicazione verbale e scritta per la salute del paziente».
La comunicazione è l’interazione tra soggetti, scambio di valori sociali, condivisione di significati. Si parla di Relazione Sociale; tutto questo può avvenire anche senza la parola, solo con i gesti, la postura fisica, l’espressione del volto, lo sguardo, la mimica. La comunicazione è sempre orientativa, ossia tesa a formare gli individui; si ha perciò una precisa intenzionalità comunicativa diretta alla formazione e, dunque , alla trasmissione di abiti mentali e comportamentali che potrebbero incidere sulle future decisioni della persona.
Siamo forse di fronte a un sostanziale cambio di paradigma nel rapporto medico-paziente? «Forse – aggiunge Grossi – è più appropriato parlare di un ritorno agli albori della medicina, ai tempi di Ippocrate e Galeno, per i quali l’uomo era al centro della cura, e mente e corpo erano uniti. Accettare che le parole possano svolgere una funzione benefica per la nostra salute significa scardinare le fondamenta di un pensiero che è stato dominante per centinaia di anni e che ancora oggi sussiste: il modello cartesiano della incomunicabilità tra mente e corpo, elaborato nel 1600».
Fu infatti proprio Renato Cartesio, filosofo e matematico francese, “padre” del famoso Cogito, ergo sum (Io penso, dunque sono), a suddividere la realtà in res cogitans e res extensa, ovvero in sostanza caratterizzata dall’attributo del pensiero, la prima, e in sostanza caratterizzata dall’attributo dell’estensione, la seconda. Le conseguenze pratiche del dualismo cartesiano le ancora osserviamo ancora oggi, come ricorda Grossi: tuttora la psicologica e la medicina clinica continuano, in larga parte, a rivolgere la propria attenzione l’una alle cure della mente e l’altra a quelle del corpo – e questo nonostante già negli anni Settanta lo psichiatra statunitense George Engel avesse pubblicato un articolo nel quale si faceva esplicitamente riferimento all’influenza del contesto bio-psico-sociale per il benessere individuale.
A ben vedere, anche in tempi meno recenti, c’erano stati scienziati e medici che avevano sottolineato l’importanza della relazione mente-corpo. Grossi ne ricorda alcuni: il fatto che lo stress non faccia bene alla nostra salute venne messo in evidenza la prima volta dal medico Hans Selye, che nel secolo scorso introdusse il termine “stress” per descrivere la “risposta aspecifica del corpo a qualsiasi richiesta”, ovvero l’adattamento di un individuo a fronte di una situazione avversa o potenzialmente dannosa e con conseguenti manifestazioni fisiche. E prima di Selye, anche il medico inglese William Harvey (1578 – 1657), al quale dobbiamo la prima descrizione del sistema circolatorio umano, aveva intuito come qualsiasi sollecitazione della mente (tanto positiva, quanto negativa) causi uno squilibrio psicosomatico la cui influenza si estende al cuore.
Quattrocento anni dopo la rivoluzione cartesiana possiamo finalmente dire che la sua tenuta sta vacillando. Esistono ormai numerosi studi che mostrano il legame tra emozioni negative legate allo stress e molte malattie psicosomatiche (si veda “Stress e disturbi da somatizzazione” di Angelo Compare e Enzo Grossi, Springer editore, n.d.r.), così come sono note le reazioni fisiche che diversi stati emotivi possono provocare, dalla sudorazione, all’aumento della frequenza cardiaca, al dilatarsi delle pupille. «Inoltre, e questo è particolarmente importante, oggi la medicina valorizza anche gli eventi positivi e il piacere in relazione alla nostra salute – spiega Grossi. – Le emozioni piacevoli innescano meccanismi che portano al rilascio di dopamina, endorfine, serotonina e ossitocina; e, secondo la letteratura scientifica più recente, proprio l’ossitocina è in grado di bloccare le conseguenze negative del cortisolo, l’ormone dello stress, il quale, se rimane in circolo nel nostro corpo troppo a lungo, può causare anche danni a vari livelli, soprattutto a carico del cervello e dl sistema immunitario».
Tutto questo porta a rivedere il rapporto medico-paziente e il concetto stesso del “prendersi cura di”: sul piano clinico, diventa importante quello che il medico comunica con il suo sguardo, il comportamento e la scelta delle parole usate. «Si tratta di donare al paziente vicinanza ed empatia – dice Grossi – valorizzando anche il racconto del malato, che va ascoltato e non svilito. Se con l’avvento della rivoluzione scientifica e tecnologica la centralità della persona si era poi andata un po’ a perdere, oggi le Medical Humanities ci mostrano che quando un paziente è messo nella condizione di parlare e scrivere di sé in maniera libera, della sua angoscia e della sua situazione, la ripresa fisica ne beneficia». Concretamente questo lo si è visto, per esempio, in persone che avevano avuto un trapianto di reni: la scrittura espressiva (una particolare tecnica messa a punto da James Pennebaker) è in grado di promuovere la ripresa della funzionalità renale; mentre un altro studio ha dimostrato che scrivere delle proprie emozioni favorisce addirittura la cicatrizzazione delle ferite.
I pazienti non hanno bisogno solo di una diagnosi precisa e di una terapia, ma anche di accettazione, conforto, speranza, tenerezza e sostegno.
È stato dimostrato che una comunicazione efficace consente ai pazienti di rivelare le proprie preoccupazioni e aspettative, mentre i pazienti sarebbero meno motivati a rivelare i propri bisogni e sentimenti quando hanno esperienze negative passate nelle loro interazioni con gli infermieri. Inoltre, i pazienti hanno bisogno di essere incoraggiati a parlare dei loro problemi psicologici.
Tuttavia, quando la comunicazione è efficace, gli anziani si sentono curati, rispettati e più capaci di descrivere le loro preoccupazioni. Ciò significa che quando le relazioni sono migliori grazie alle esperienze positive nella comunicazione non verbale, si scoprirebbe il non detto.
«Sarebbe auspicabile – conclude Grossi – l’inserimento di corsi di comunicazione all’interno del percorso di Medicina. Negli Stati Uniti già ora bisogna superare un esame di comunicazione per avere l’abilitazione professionale all’attività di medico, e alcune università americane prevedono, nel curriculum di studi del futuro medico, un esame di letteratura. Mi auguro che questo modello possa ispirare anche i centri universitari da noi».