Non avevo mai sentito nominare il reflusso gastroesofageo fino a una mattina di otto anni fa quando, in preda a un attacco di panico, mi presentai al Pronto soccorso del Lenox Hill Hospital di New York senza assicurazione, ma convinto di morire. Quel giorno mi ero svegliato tardi – la sera prima avevo bevuto troppe birre e fumato ancora più sigarette, un’abitudine comune a 29 anni – e avevo deciso di fare un brunch del sabato guardando la partita di Serie A che negli Stati Uniti veniva trasmessa a mezzogiorno: era il 9 aprile, si giocava un noioso Inter-Chievo di fine anno e ci abbinai un cheeseburger con patatine fritte che mi fu consegnato a casa.
All’epoca la mia dieta non seguiva le linee guida per una sana alimentazione, diciamo, e spesso mi capitava di bere diversi caffè e fumare parecchie sigarette prima ancora di aver mangiato qualcosa. Quella mattina, al primo morso, sentii una gettata di lava che mi risaliva in gola e mi impediva di respirare. Mi spaventai, e non so ancora se quella che presi istintivamente nei minuti successivi fu la decisione più stupida o più fortunata della mia vita: cercai su Google i sintomi del mio malanno, e la diagnosi fu implacabile. Tumore all’esofago, con l’immancabile conoscente che aveva la tosse e morì in un mese. Il mio primo (e unico) attacco di panico si manifestò in quel momento: sentii una bolla calda salirmi nelle viscere, cominciò a mancarmi l’aria e il cervello andò in tilt.
E l’assicurazione?
Allora mi diressi in tutta fretta al Pronto soccorso del Lenox Hill, sulla 77esima e Lexington, convinto che mi restasse poco da vivere. Riuscii a mantenere un po’ di contegno all’accettazione, poi si avvicinò un infermiera e chiese cosa mi sentissi. «Credo che sto per morire», le dissi. «Io non credo, ma vediamo», rispose da brava la dottoressa americana, attenta a non dire nulla che avrei potuto usare contro di lei in tribunale. Mi misurò temperatura e pressione, poi mi guardò in gola con quella che ricordo come una torcia. «Non stai morendo, hai il reflusso gastroesofageo», mi disse. E aggiunse: «È una patologia da non sottovalutare, ora facciamo dei raggi per sicurezza». Io però ero di nuovo felice, mi sentivo molto meglio e mi ricordai di un dettaglio: «Meglio di no, non ho l’assicurazione», le dissi, e mi precipitai fuori dall’ospedale. In preda a quell’attacco di panico, effettivamente, non avevo pensato alle conseguenze. Colpevolmente – e con l’incoscienza dei vent’anni – non avevo mai sottoscritto un’assicurazione medica, non ne avevo bisogno. Uscendo dall’ospedale pensai che probabilmente quella visita mi sarebbe costata duecento dollari, ma festeggiai comunque la buona notizia: non stavo morendo. Così quella sera brindai con gli amici e fumai di nuovo troppe sigarette.
Un conto molto salato
La mattina dopo mi ritrovai con un nuovo violento attacco di reflusso e a confrontarmi, per la prima volta, con un «tradimento» del mio corpo. Scoprii che dovevo cambiare alimentazione – niente più pomodori, cioccolato, menta o alcol, per esempio – e, almeno per quel giorno, decisi di non fumare: la cura, però, me la feci prescrivere da medici amici di famiglia in Italia, dove poi tornai un paio di settimane dopo per farmi visitare da un gastroenterologo che mi vietò tassativamente l’alcol. Solo dopo scoprii, grazie alla figlia, che lui era astemio. Nel frattempo arrivò il conto dell’ospedale, da 300 dollari: tanti, ma temevo peggio. Il problema è che poi ne arrivò un altro, da 1.100 dollari. Negli Stati Uniti, infatti, non arriva mai una singola fattura. In totale facevano 1.400 dollari per avermi guardato cinque minuti in gola con una torcia. Chiesi a un amico di andare al Lenox Hill a saldare per me, lui trattò con l’amministrazione e ottenne uno sconto di 500 dollari. Quel viaggio impulsivo all’ospedale senza assicurazione, alla fine, mi è costato 900 dollari, ma mi ha insegnato parecchie cose: innanzitutto a non cercare diagnosi su Google. Poi a prendermi cura di me stesso: oltre ad avere un’alimentazione più sana, oggi sono quasi 3 mila giorni che non fumo, e non ne ho più avuto il desiderio. Infine a non sottovalutare il sistema sanitario italiano: quella è stata l’ultima volta che in America non mi sono sentito a casa.
Redazione NurseNews. Eu
Fonte
Corriere. It