Una riflessione giuridica sui possibili profili di responsabilità civile per le infezioni contratte presso le strutture sanitarie
coronavirus, medico Legali, pandemia da Coronavirus ha posto e porrà i giuristi di fronte a nuovi interrogativi tra questi uno di quelli certamente più implicanti e delicati è rappresentato dai potenziali profili di responsabilità civile a carico delle strutture sanitarie per le infezioni da Coronavirus contratte presso le strutture stesse. Questo tema consente, più in generale, una breve riflessione sulla cd. responsabilità organizzativa della struttura sanitaria e sul danno nosocomiale[1], a distanza di tre anni da quella legge “Gelli” che ha posto al centro del sistema della responsabilità medica i profili della prevenzione e della gestione del rischio sanitario. Il tema del risk management, sotto questo profilo, era già stato introdotto dalla L. 8 novembre 2012, n. 189 (c.d. legge Balduzzi), ma trova proprio nella legge Gelli una sua compiuta definizione.
Il presupposto della analisi che si vuole svolgere, confermato proprio dalle regole di eccezione alla responsabilità ordinaria che si volevano introdurre per via legislativa, è che non si possa ritenere, per il tema in esame, che l’epidemia da CoVid-19 possa essere considerata una “forza maggiore” ai fini della valutazione di una sopravvenuta infezione nosocomiale o di una responsabilità organizzativa dell’ente (in altri termini se si fosse reputata sussistente una “forza maggiore” non avrebbe avuto senso pensare di introdurre delle limitazioni alle responsabilità di operatori sanitari e di organi amministrativi e gestori).[2]
Non verrà trattato il tema della responsabilità degli operatori sanitari che avrebbe dovuto essere peraltro limitata dal Decreto-Legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. “Cura Italia”)[3] analogamente a quanto tempestivamente avvenuto negli U.S.A.[4], esenzione che si è successivamente tentato di estendere anche alla responsabilità delle strutture sanitarie e socio sanitarie pubbliche e private ed alle figure professionali-tecniche amministrative del Servizio sanitario con un emendamento -poi ritirato- in sede di conversione del Decreto[5]. Va poi precisato che per il personale sanitario l’infezione da Covid-19 è considerata un infortunio sul lavoro (che quindi la struttura sanitaria ha il dovere di prevenire).[6]
È opportuno partire da un inquadramento generale del tema delle infezioni nosocomiali. Col termine infezioni nosocomiali[7] si intendono generalmente infezioni insorte nel corso di un ricovero ospedaliero, non manifeste clinicamente né in incubazione al momento dell’ingresso e che si rendono evidenti dopo 48 ore o più dal ricovero, nonché quelle successive alla dimissione, ma causalmente riferibili, per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di trasmissione al ricovero medesimo[8]. Tali infezioni sono un problema particolarmente critico per la medicina moderna, a causa della loro elevata frequenza e difficile evitabilità, nonostante siano prevedibili, nonché a causa delle loro conseguenze, spesso gravi[9]. Ciò con evidenti ricadute anche in termini di contenzioso giudiziario a titolo di richieste di risarcimento del danno patito, letteralmente esploso negli ultimi anni[10].
Questo tema potrebbe acquisire ulteriore interesse proprio a causa della diffusione dell’epidemia da Coronavirus: è ormai noto che l’ampia diffusione del virus sia avvenuta proprio nelle strutture ospedaliere, e ciò apre inevitabilmente dibattiti sull’adeguatezza degli strumenti preesistenti e finalizzati a prevenire o fronteggiare eventi simili, nonché sull’esigibilità di alcune condotte da parte della struttura sanitaria stessa[11].
Quanto detto è essenziale per il nostro specifico tema di approfondimento. Come accennato la legge Gelli, che ha profondamente riformato la materia della responsabilità sanitaria, ha sancito in capo alla struttura sanitaria una responsabilità di tipo contrattuale: scelta alla cui base si pone l’esigenza di garantire le migliori cure possibili anche mediante un’attenzione particolare alla gestione del rischio. A livello sostanziale e processuale, ciò ha ricadute pratiche notevoli e che certamente meglio permettono di comprendere proprio la centralità del tema del risk management.
La principale conseguenza dell’inquadramento della responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale riguarda certamente il profilo dell’onere probatorio. Infatti, all’attore danneggiato spetterà solo la prova dell’esistenza del rapporto con la struttura (contratto o contatto sociale), nonché allegare l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e l’inadempimento del debitore astrattamente idoneo a cagionare il danno lamentato. Con riferimento al caso delle infezioni nosocomiali, si dovrà innanzitutto verificare se l’infezione sia ricollegabile a quelle qualificate come nosocomiali. La prova sarà certamente agevole laddove, ad esempio, si dimostrasse che anche altri pazienti hanno contratto una simile infezione nello stesso periodo. Nel caso delle infezioni da Coronavirus, ciò sarebbe certamente agevole laddove, ad esempio, il soggetto infettato fosse da lungo tempo ricoverato in ospedale, rappresentando questo quindi l’unico possibile luogo di infezione.
Sarà invece onere della struttura provare il corretto e diligente adempimento, nonché la riconducibilità del danno a causa non imputabile ad essa[12], onere sicuramente complesso in caso di infezioni ospedaliere. Questo innanzitutto a causa delle caratteristiche proprie delle infezioni nosocomiali, che per loro natura rendono quasi impossibile risalire all’effettivo responsabile dell’infezione. La struttura sanitaria in tal senso dovrà dimostrare di aver adottato un modello organizzativo finalizzato ad evitare o ridurre il rischio di insorgenza di questo tipo di infezioni, ovvero dimostrare la loro inevitabilità. Sul punto, la giurisprudenza e la ratio della riforma stessa giocano un ruolo decisivo. L’adozione di specifici modelli organizzativi finalizzati alla riduzione dei rischi, che pone così rilevanza alla prevenzione e costituisce la prova liberatoria del diligente adempimento delle obbligazioni scaturenti dal contratto atipico di spedalità, pone al centro del sistema il tema della gestione del rischio ospedaliero. Modelli gestionali che dovranno essere stati adottati nel caso concreto oggetto di giudizio[13] e che dovranno coprire l’intera durata del ricovero ospedaliero, non solo quella strettamente intesa dell’operazione. La giurisprudenza sul punto ha talvolta riconosciuto la sussistenza di questo diligente adempimento, ricollegando l’infezione a casi prevedibili ma non prevenibili di infezioni ospedaliere[14]. In generale però, si è evidenziato da più parti una decisa tendenza fino a tempi recenti ad oggettivizzare la responsabilità della struttura. Nell’attuale sistema del diritto civile, incentrato sul bilanciamento di interessi e sulla socializzazione dei rischi[15] e delle attività potenzialmente dannose[16], e non necessariamente sulla colpa, ciò è coerente con una migliore gestione del rischio e con la sua distribuzione in capo a chi immette nel sistema il rischio stesso ovvero lo gestisce, agevolando così anche la posizione del soggetto che doveva essere protetto. Ciò nel senso quel percorso evolutivo che ha portato a dire che “Le numerose esemplificazioni dei caratteri della responsabilità a rilevanza sociale, da un lato, ed il ripensamento, se non addirittura il dissolvimento, di alcune categorie tradizionali, sul piano sistematico, dall’altro, confermano il progressivo, irreversibile restringimento della “forbice”, un tempo ampia, tra illecito extracontrattuale e contrattuale, non soltanto nella direzione del cumulo, ormai pacificamente ammesso, ma anche nelle sembianze sempre più simili delle due fattispecie”[17]. Tale conclusione è coerente anche con le riflessioni poste da autorevole dottrina in tema di analisi economica del diritto[18] e con quanto fatto già in altri settori, quali quello dei consumatori. La tendenza ad oggettivizzare il rischio da un lato incentiva i tentativi di migliorare la qualità delle prestazioni erogate e l’organizzazione dell’intera struttura[19]; dall’altro pone rilievo sulla valorizzazione del principio di precauzione, che in tali contesti gioca un ruolo molto importante.
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Rimanendo sempre sul profilo probatorio, ma spostandoci sul polo della prova liberatoria – imprevedibilità e inevitabilità dell’infezione – è opportuno segnalare come comunemente le infezioni ospedaliere sono considerate in medicina come delle complicanze, cioè un evento dannoso astrattamente prevedibile ma difficilmente evitabile. In ambito giuridico però, come affermato in giurisprudenza[20], non sussiste una soluzione simile, e le uniche soluzioni percorribili sono due: o il peggioramento è prevedibile ed evitabile, ed in tal caso porterà all’insorgenza di responsabilità, ovvero è imprevedibile ed inevitabile, ed in tal caso integri gli estremi della causa non imputabile ai sensi dell’art. 1218 c.c. Anche al fine della prova liberatoria, pertanto, assumerà valore decisivo la dimostrazione di aver tenuto un comportamento conforme a leges artis, mediante strumenti organizzativi idonei a prevenire le infezioni ospedaliere, ed il rispetto di tutte le norme, regolamenti, ordini o discipline, rendendo così i pochi casi poi avvenuti eventi davvero del tutto imprevedibili e inevitabili.
Questa riflessione può applicarsi anche con riferimento alle infezioni da Coronavirus. Sarà necessario infatti valutare gli strumenti di protezione concretamente posti in essere dalla struttura, i meccanismi e modelli organizzativi, adottati al fine di prevenire il diffondersi del virus nella struttura stessa. È infatti da dimostrare che l’epidemia e il contagio all’interno degli ospedali fossero eventi del tutto imprevedibili e inevitabili, specie nel momento in cui la diffusione del virus era ormai divenuta nota alle autorità sanitarie. La responsabilità in capo alla struttura allora si configurerebbe come una responsabilità generalmente omissiva, per non aver posto in essere misure adeguate al fine di evitare il contagio all’interno delle strutture, ad esempio mediante apposite misure di isolamento[21]. Centrale diventa allora una valutazione sull’adempimento degli obblighi accessori di protezione da parte della struttura sanitaria, del rispetto e dei meccanismi e modelli organizzativi atti a impedire il diffondersi del virus nella struttura ospedaliera e sulle altre scelte relative alla gestione della struttura mentre il rischio si manifestava (es. scelta su trasferimenti ed accettazione di pazienti esterni affetti dal virus).
La struttura avrebbe dovuto fronteggiare, con tutte le risorse organizzative, diagnostiche e terapeutiche disponibili l’emergenza giunta alla sua attenzione, secondo il principio di precauzione, con anche il dovere di verifica e vigilanza tramite riunione periodiche e briefing, e conseguente adozione di regole protocollari e verifiche periodiche, basandosi sulle linee guida (ove esistenti) e su quanto indicato dalla letteratura scientifica nazionale ed internazionale. Vi sarebbe inoltre anche l’obbligo di informare i pazienti dell’eventuale rischio di contrarre una infezione nosocomiale.[22]
Queste riflessioni si pongono in particolare con riferimento a soggetti ricoverati da lungo tempo all’interno della struttura sanitaria e che abbiano contratto il Coronavirus: è del tutto evidente, infatti, che l’infezione di tali soggetti non possa che essere avvenuta all’interno della struttura, prospettando quindi con ogni probabilità una responsabilità della struttura, per non aver tutelato e protetto la loro salute. In particolare nei confronti di soggetti considerati “più vulnerabili” e per i quali invece, quindi, sarebbe stato doveroso predisporre standard di tutela ancor più elevati.
Passando al profilo nel nesso causale, anche su questo punto si possono fare alcune considerazioni. In caso di infezioni ospedaliere, anche alla luce dell’incertezza sulle stesse, è logico che la valutazione causale venga condotta secondo la logica del più probabile che non[23]. Il caso assume particolare delicatezza laddove, a seguito delle infezioni, il soggetto vada incontro all’evento morte. Sul punto, infatti, possono porsi dei dubbi in merito alla rilevanza di più concause sull’evento mortale: considerazione importante anche nel caso qui in esame, poiché il Coronavirus presenta alto tasso di mortalità specie in soggetti già affetti da altre patologie. A tal proposito, l’art. 41 c. 2 c.p. prevede però che solo il rischio nuovo e da solo sufficiente ed idoneo a interrompere il nesso causale faccia venir meno anche la responsabilità dell’autore della prima condotta. La giurisprudenza in tema di infezioni ospedaliere ha però affermato che queste non siano idonee ad interrompere il nesso con la prima condotta, in quanto eventi prevedibili ed evitabili, essendo anzi uno dei rischi tipici della permanenza nella struttura[24]. Certamente però il covid-19 non si pone come elemento tipico di alcun decorso. Più in generale, si nota una certa tendenza a sollevare il paziente dall’onere di provare tale nesso, ricorrendo a metodi presuntivi ovvero richiedendo alla struttura la prova dell’evento imprevedibile e inevitabile. Ciò sembra coerente con quanto detto sopra, in tema di redistribuzione del rischio e oggettivizzazione della responsabilità in capo alla struttura stessa[25].
Con riferimento al caso specifico del Coronavirus, si è già accennata la necessità di riflettere sulla prevedibilità ed evitabilità di tale infezione in ambito ospedaliero. La risposta appare incerta e sicuramente dipenderà dalla valutazione delle circostanze del caso concreto. Si tenga però presente che lo stato di allerta per la diffusione del virus era già noto a fine gennaio ed il 22 febbraio il Ministero della Salute emanava la prima circolare contenenti norme tecniche per le strutture sanitarie. Norme, queste, con la finalità di orientare il comportamento delle strutture sanitarie e che quindi ove non fossero state rispettate, potrebbero comportare l’insorgere di responsabilità della struttura, ovviamente valutando il caso concreto[26].
In conclusione di questa breve disamina, siano consentiti alcuni rilievi. Innanzitutto, si noti che sebbene si sia parlato delle infezioni da Coronavirus in rapporto a quelle nosocomiali, le prime presentano comunque delle peculiarità. Innanzitutto, rispetto alla generale categoria delle infezioni nosocomiali, quelle da Coronavirus hanno avuto origine al di fuori dell’ospedale. Pertanto la responsabilità della struttura sanitaria si qualifica come una responsabilità, generalmente, omissiva, per non aver impedito l’ingresso del virus al suo interno e non averne contenuto la diffusione. Ciò ha portato, come effetto, l’infezione di personale medico e di pazienti già ricoverati nella struttura stessa, ledendo così il loro diritto alla salute, che doveva essere tutelato dall’Ente mediante strumenti preventivi adeguati. La valutazione sulla diligenza della struttura nell’adozione di misure preventive, pertanto, riguarderà questo specifico aspetto, in cui le indicazioni ministeriali, le migliori pratiche e il ruolo del principio di precauzione potranno giocare un ruolo decisivo, anche in termini di prevedibilità ed evitabilità del contagio.
Più in generale, ciò che emerge da quanto esposto è la centralità del tema della gestione del rischio sanitario, e della responsabilità organizzativa posta in capo alla struttura da questo derivante, profilo che rappresenta uno dei pilastri portanti anche della riforma Gelli. La tendenza sembra, quindi, quella di un’oggettivizzazione della responsabilità per infezioni nosocomiali, derivante da responsabilità di tipo organizzativo. In una logica di ripartizione del rischio, così come di analisi economica del diritto, questa soluzione sembra la più adeguata, in quanto permette di addossare sul gestore del rischio le conseguenze negative derivanti.
Altalex. Com