Gentile Direttore,
riflettevo sul fatto che un po’ di bon ton lessicale, quando si parla e si scrive di professionisti sanitari, non guasterebbe. Non certo su questa testata specializzata, ma sui media generalisti. Qualche settimana fa, sono incappato in una notizia di cronaca locale il cui titolo recitava: “L’infermiera del dottor Oscar Zannini compie 100 anni”.
In quel caso, ad esempio, il complemento di specificazione riferito agli infermieri sembra suggerire che l’infermiere lavori “per” e non “con” il medico.
Certo, è possibile che sia lo stesso infermiere a presentarsi al giornalista con questa formula, ma mi viene da pensare che il corollario di questo tipo di approccio grammaticale sia che il medico possa pacificamente usare locuzioni del tipo: “il mio infermiere”, “la mia caposala”, senza alcun intento denigratorio, s’intende.
Lo scorso anno, a un congresso scientifico, una consigliera comunale (medico) disse: “D’altra parte, dietro ogni grande medico c’è sempre un grande infermiere”, parafrasando la penosa frase “Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna”, giustamente detestata da chi s i batte per la parità di genere.
Dando per scontata la buona fede di chi usa queste espressioni (giornalisti compresi), mi chiedo, piuttosto, se esse siano al passo coi tempi, e con l’evoluzione delle professioni sanitarie tutte: insomma, ha ancora senso parlare ancora di infermieri (o, se volete, di anestetisti, tecnici di radiologia…) come se fossero “di qualcuno”, incoraggiando una visione ancillare di certe posizioni all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, rispetto al medico-dominus?
Nella realtà, non è più così da tempo, e non per rivendicazioni sindacali: semplicemente, perché i modelli organizzativi in sanità si sono evoluti. Nel lessico quotidiano del management si parla di équipe multidisciplinari e multiprofessionali, task shifting, collaborazione interprofessionale.
Per gli infermieri in particolare, poi, c’è anche un altro scoglio semantico da superare: assodato che, col tempo, la formula “l’infermiere del dottore” si userà sempre meno, resta che l’aggettivo possessivo “mio” non venga ancora usato dallo stesso paziente/cittadino, così come avviene per le altre principali professioni sanitarie.
È infatti normale leggere o sentir dire “la mia ginecologa”, “il mio ortopedico”, “il mio medico di famiglia”, “la mia fisioterapista”…
Ma “il mio infermiere”?
Se non è del medico, l’infermiere, allora, di chi è?
Sia i pazienti ricoverati che i cittadini che si approcciano al SSN difficilmente usano quel “mio” riferito alla figura infermieristica.
Così, io fisserò in segreteria un appuntamento con il mio dentista (di cui conosco le referenze e che appellerò come dottore/professore); contatterò via whatsapp la mia fisioterapista (di cui conosco nome e numero); in ospedale mi visiterà il chirurgo, che spesso ho individuato io, che poi mi opererà e di cui ho studiato il curriculum su internet.
E l’infermiere? Il professionista che passerà più tempo con me, che mi assisterà nella terapia, che mi spiegherà cosa fare una volta dimesso: chi è? Come si chiama? Come lo appellerò?
Purtroppo, è passata l’idea che, per gli infermieri, “uno vale uno”… o peggio… “uno vale l’altro”. Lavorano su turni, sono spesso giovani ed empatici, patiscono un’elevata mobilità tra i reparti e non sono considerati infungibili, le loro specializzazioni accademiche non si evincono a primo impatto, la loro carriera nel Sistema non è chiara al degente comune (e spesso neanche agli infermieri stessi!).
Si finisce per dare del “tu”, chiamarli per nome, e spesso, proprio perché più a portata di mano, quella mano se la ritrovano sulla faccia, sotto forma di ceffone.
Tutta questa “confidenza” con il paziente-cittadino… eppure non scatta quell’aggettivo possessivo (in senso buono) “mio”, riservato a tutti gli altri sanitari.
Sicuramente anche a causa di un po’ di sciatteria degli infermieri stessi: in taluni casi può tornare utile essere avvolto da una nebulosa semantica… a volte si sopporta malvolentieri addirittura il cartellino aziendale che riporta nome e qualifica. Questo per dire che ciascuna professione ha il potere di contribuire a cambiare la semantica investendo su se stessa e su modelli organizzativi sempre più personalizzati.
Magari è lecito pensare che qualcosa cambierà con l’istituzione (e la diffusione) dell’Infermiere di famiglia e Comunità (IFeC) che avrebbe piena riconoscibilità sociale e professionale sul territorio di competenza.
Io cittadino avrei ben impresso nella mia “cassetta degli attrezzi” sociosanitaria anche il nome del “mio infermiere”, oltre a quelli già arcinoti del mio medico di famiglia e del mio dentista.
Rendere attrattiva una professione passa anche attraverso segnali di crescita ed evoluzione culturale della società al cui è al servizio.
Di chi sono dunque gli infermieri?
Di tutti noi: sono un patrimonio dell’intera comunità.
Silvestro Giannantonio
Responsabile Comunicazione FNOPI
Fonte Quotidiano sanità.it
Redazione NurseNews.eu