Stefano De Martis
intervista doppia a due costituzionalisti, sostenitori del Sì e del No al progetto di riforma. Il primo è Stefano Ceccanti (docente di diritto costituzionale all’università “La Sapienza” di Roma). Il secondo è Enzo Di Salvatore (docente di diritto costituzionale all’Università di Teramo).
Quando si mette mano a una riforma costituzionale come quella sottoposta a referendum, non si hanno in mente solo dei meccanismi giuridici ma anche un’idea di democrazia. A suo giudizio quale idea di democrazia c’è alla base della riforma su cui i cittadini si esprimeranno il 4 dicembre?
L’idea di democrazia proposta dal Sì è competitiva e decentrata.
Competitiva in alternativa a consociativa perché, in continuità col movimento referendario dei primi anni ’90, si vuole che il cittadino scelga non solo i parlamentari ma che sia anche e soprattutto arbitro della maggioranza e del governo. Un obiettivo che abbiamo conseguito per Comuni e Regioni e che trova un ostacolo insormontabile nel doppio rapporto di fiducia. Non c’è legge elettorale che possa produrre due maggioranze identiche tra Camera e Senato, anzi dal 1994 ad oggi 4 volte su 6 le maggioranze sono state diverse.
Decentrata perché si tratta di togliere confusione al rapporto centro-periferia che oscilla tra un federalismo promesso dalla precedente riforma del Titolo V e un accentramento praticato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Uno Stato decentrato porta con sé l’esigenza di un raccordo tra centro e periferia nel Parlamento, con un Senato delle autonomie che in dialogo con la Camera prevenga i conflitti che non possono essere evitati neanche dal miglior elenco delle rispettive competenze.
Lei ha preso posizione per il Sì a questa riforma. Ma era proprio necessario modificare la seconda parte della Costituzione?
Era necessario per tre ragioni principali. Anzitutto perché il doppio rapporto fiduciario ha spesso obbligato al Senato a far dipendere le maggioranze da transfughi, dai senatori a vita, dagli eletti all’estero, facendo peraltro pesare in modo eguale un’Assemblea che non è neanche eletta a suffragio universale, perché sono escluse ben 7 classi di età da 18 a 25 anni. In secondo luogo perché, in assenza di un Senato delle autonomie, sia lo Stato sia le Regioni si impugnano reciprocamente le leggi più importanti, trasformando la Corte costituzionale da organo di tutela dei diritti a organo chiamato a svolgere una supplenza politica mettendo d’accordo i poteri. Infine perché, non essendo prevedibili i tempi di decisione sui disegni di legge, la debolezza reciproca di Governo e Parlamento si incrocia nei decreti. Per attuare il programma il Governo inonda il Parlamento di decreti-legge molto eterogenei e, per farli convertire, accetta poi di vederli crescere del 50 per cento nel corso dell’esame parlamentare, riempiendoli di ulteriore micro-legislazione. Era necessario prevedere per Costituzione una fisiologica corsia preferenziale per il Governo e limitare seriamente lo strumento patologico dei decreti.
C’è un punto di questa riforma che vorrebbe cambiare nonostante il giudizio positivo sull’insieme?
Sì, il quorum troppo garantista per l’elezione del presidente della Repubblica. Il quorum di tre quinti dei presenti o dei componenti (tanto tutti votano, quindi si equivalgono) va bene per i giudici della Corte e per i componenti laici del Csm perché si tratta di più persone e si possono quindi fare accordi incrociati. Se invece si deve eleggere una persona sola quell’elemento di flessibilità viene a mancare e se le posizioni si irrigidiscono la presenza di franchi tiratori rischia di bloccare l’elezione come avvenuto nel 2013, anche in presenza di un quorum più basso.
Che scenario immagina per il dopo referendum, nei due esiti possibili?
Se vince il Sì sarebbe tutto ben prevedibile. La legislatura potrebbe ben proseguire attuando già parte della riforma, in particolare approvando da subito la nuova legge per il Senato.
Se vince il No non si sa bene cosa potrebbe accadere giacché i promotori di quell’eterogeneo schieramento sono divisi: chi vorrebbe votare subito, chi propone altre riforme divergendo peraltro nei contenuti. Tutti e due gli schieramenti sono politicamente trasversali ed eterogenei in quel senso, ma il Sì non lo è rispetto agli adempimenti istituzionali successivi, mentre il No obiettivamente lo è. I suoi sostenitori sembrano i promotori della Brexit che non avevano un piano in caso di vittoria. A preoccupare poi dovrebbe essere anche il fatto che a guidare quantitativamente lo schieramento del No sono il M5S e la Lega Nord, ideologicamente contrari a un maggior livello di integrazione europea senza il quale non c’è uscita dalla crisi.
Agensir.it