La legge 24/2017 c.d. “legge Gelli” sbarca in Cassazione ancora prima di entrare in vigore. La novella diventata operativa sabato primo aprile, avrà sicuramente effetto sul giudizio di rinvio dopo l’accoglimento del ricorso del medico condannato per la mancata applicazione retroattiva della legge Balduzzi. Ora la legge Gelli abroga espressamente l’articolo 3, comma 1, del decreto legge 158/12, convertito dalla legge 189/12. Sarà il giudice del rinvio a dover stabilire se la riforma è disciplina più favorevole per l’imputato e dunque applicabile a sua volta retroattivamente. Già da ora, tuttavia, va rilevato che la legge 24/17 scrimina espressamente il medico imputato per lesioni personali o omicidio colposo che ha osservato le linee guida, unicamente se l’evento si è verificato a causa di imperizia, mentre la giurisprudenza più recente di legittimità, che si è formata sulla Balduzzi, sostiene che il sanitario rispettoso delle best practice non risulta punibile in caso di colpa lieve anche nell’ipotesi di negligenza. Senza dimenticare che la legge Gelli non distingue più tra gradi della colpa. Sarà quindi importante vedere come si regoleranno i giudici del rinvio. È quanto emerge dalla sentenza 16140/17, pubblicata il 30 marzo dalla quarta sezione penale della Cassazione.
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La Corte territoriale di Ancona ha riformato la sentenza di condanna inflitta dal tribunale di San Benedetto del Tronto contro il medico, colpevole secondo la corte, di aver cagionato danni al paziente LD con indebolimento permanente dell’organo digestivo con importanti esiti cicatriziali addominali e toracici.
Il medico è stato condannato in primo grado alla provvisionale di 100.000 €, ridotta poi dalla corte territoriale a soli 15.000€.
La condanna è stata inflitta perché il medico è stato ritenuto responsabile di aver voluto operare il paziente per asportazione di una neoformazione della giunzione gastroesofagea per via laparoscopica, in una struttura -Casa di cura- priva delle necessarie apparecchiature tecnologiche e senza controllo endoscopico, per aver omesso i necessari esami strumentali ancorché invasivi che avrebbero potuto evidenziare che era già presente una fistola esofago-mediastinica e per aver ritardato il trasferimento del paziente presso una struttura più adeguata.
I legali del ricorrente si soffermano sui profili della colpa contestati al loro assistito, denunciando che è inesistente il profilo dell’imprudenza, posto che l’intervento di “leiomioma” è un intervento che si presenta in rarissimi casi ma che comunque il medico aveva effettuato interventi similari centinaia di volte.
Contestano inoltre che non è vero che mancava il consenso informato –presente in cartella- e che mancassero nella struttura l’endoscopio e le capacità tecniche del medico nell’utilizzarlo. I periti, secondo la tesi difensiva, non hanno considerato le immagini fotografiche presenti in cartella oltre che le dichiarazioni rilasciate dallo stesso imputato riguardo all’uso dello strumento.
Dalla parte civile, viene invece contestato al ricorrente che giustamente la corte ha contestato il mancato uso dell’endoscopio che avrebbe sicuramente: ridotto i tempi di individuazione della fistola, contenuto la durata della malattia e evitato la resezione dell’esofago.
Ancora, la difesa, contesta il fatto che il tipo di intervento aveva una probabilità causale di riuscita del 40% e aggiunge che l’uso dell’endoscopio pediatrico avrebbe certamente consentito alla paziente di guarire senza la necessità resezione dell’esofago, ovvero di beneficiare di tempi di malattia notevolmente ridotti.
La Suprema Corte dal canto suo così si esprime; “afferma che la corte territoriale ha dedotto che gli eventi lesivi occorsi alla paziente, tra i quali il periodo di degenza, dipendono dal fatto che il dott. F. praticò l’intervento chirurgico in una struttura priva delle necessarie apparecchiature, ma l’assunto della corte non viene altrimenti sviluppato dai giudici di merito soprattutto in riferimento allo specifico decorso clinico che caratterizza il caso de quo. Inoltre la corte muove a rilievo del dott. F il fatto che non utilizzò l’endoscopio e che la fistola venne perciò diagnosticata con grave ritardo”.
Trattasi di un ragionamento probatorio carente, giacché il collegio omette del tutto di confrontarsi con le allegazioni difensive supportate a prova del dichiarante, conducente a dimostrare che in realtà venne utilizzato l’endoscopio. D’altronde una volta trasferita, i medici della struttura pubblica utilizzarono l’endoscopio senza ottenere alcun risultato terapeutico utile, tanto che dovettero poi intervenire effettuando la resezione dell’esofago. Il ragionamento della corte di merito risulta sostenibile solo riguardo al posizionamento dello stent esofageo, il quale avrebbe sortito effetti salvifici, ma si tratta di circostanza che non risulta per altro adeguatamente esplorata in riferimento alla legge di copertura indicata dalla scienza medica, nella ricostruzione della dinamica causale tra condotta omissiva ed evento naturalistico, secondo l’insegnamento del diritto vivente.
Il caso clinico in esame del resto, palesa una intrinseca complessità, posto che l’insorgenza della fistola, secondo quanto riferito dai stessi giudici di merito, poteva essere curata con terapie conservative anziché con quelle chirurgiche, successivamente realizzate. Inoltre la Corte di Appello ha affermato che il dott. F ha omesso di informare adeguatamente la paziente sui rischi e sulle possibili complicanze dell’intervento chirurgico. Il collegio ha omesso di confrontarsi con le risultanze acquisite agli atti, anche di natura documentale. Tanto osservato, si precisa che il percorso motivazionale della Corte di merito appare carente anche in riferimento della ascrivibilità colposa della condotta omissiva assunta dal dott. F.
Occorre poi considerare che già nelle more del giudizio del giudice di prime cure, è stata inserita nell’ordinamento l’inedita fattispecie, in tema di responsabilità sanitaria, dettata dall’art. 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012, n. 189, ove è stabilito che; “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.
Si osserva quindi che la norma ha dato luogo ad un abolitio criminis parziale dell’art. 589 e 590 del c.p., avendo ristretto l’area penalmente rilevante delle predette norme incriminatrici, giacchè oggi vengono in rilievo solo le condotte qualificate da colpa grave.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito quale incidenza debba assegnarsi alla nuova normativa rispetto ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della nuova normativa. Va ribadito che l’abrogazione determinata dall’art. 3, comma 1, della legge n. 189/12 c.d. legge Balduzzi, delle fattispecie di cui agi artt. 589 e 590 c.p. determina un problema intertemporale che trova regolamentazione alla luce della disciplina legale.
La restrizione della portata incriminatrice si è manifestata attraverso due passaggi; l’individuazione di una area fattuale costituita da condotte accreditate ed aderenti alle linee guida; e l’attribuzione di rilevanza penale, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell’attuazione delle linee guida scientifiche.
Il parziale effetto abrogativo ha comportato conseguentemente l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 2 comma 2, c.p. -“Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”- e quindi l’efficacia retroattiva del combinato disposto di cui agli artt. 3, legge 189/12 e 589 e 590 c.p.. Anche la giurisprudenza delle sez. Unite di questa Suprema Corte ha chiarito che il fenomeno dell’abrogazione parziale ricorre allorché, tra due norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo, esiste una relazione di genere e di specie.
In virtù di ciò, è facile dedurre le ricadute di tale norma sul presente procedimento pendente in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella Balduzzi. La Corte distrettuale avrebbe dovuto verificare in punto di fatto se la condotta del dott. F. poteva dirsi aderente alle accreditate linee guida e se la stessa, fosse connotata da colpa grave. Come infatti emerge dalla sentenza impugnata, le valutazioni effettuate in merito alla colpa, prescindono da ogni considerazione rispetto al tema delle linee guida e delle prassi terapeutiche. La verifica che è stata operata in riferimento al grado della colpa muove dal solo rilievo afferente alla ritenuta inadeguatezza delle apparecchiature presenti nella clinica, questione per altro non adeguatamente analizzata.
La presente sentenza, risulta per altro vulnerata anche dalla evidente violazione di legge rispetto alla mancata applicazione di regole che erano applicabili al momento della celebrazione dl processo, secondo le norme che disciplinano la successione nel tempo di disposizioni incriminatrici. È il caso di rilevare poi che, la limitazione della responsabilità del medico in caso di colpa lieve prevista dagli artt. succitati, opera se la condotta professionale è conforme alle linee guida e alle buone pratiche, anche nella ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia. Tale interpretazione è conforme al tenore letterale della norma che non fa alcun richiamo al canone della perizia e risponde alle istanze di tassatività dello statuto della colpa generica delineato dall’art. 43, comma 3, c.p., pertanto pure a fronte di profili di negligenza da parte del medico, i giudici della corte di appello non erano esonerati dall’analizzare il caso concreto secondo i parametri introdotti dalla legge Balduzzi.
Per le ragioni su esposte si annulla la sentenza impugnata e si rinvia alla Corte di Appello per un nuovo esame del caso.
Preme inoltre evidenziare che, in tema di responsabilità sanitaria, per il reato di lesioni colpose è oggetto di inedito intervento normativo, con il quale il legislatore ha introdotto un nuovo criterio in materia di responsabilità sanitaria, anche in ambito penale. Si fa riferimento alla legge 8 marzo 2017 n. 24 c.d. Legge Gelli, pubblicata in G.U. Serie Generale n. 64 del 17.03.2017 con termine di vacatio legis in data 01.04.2017. Ai fini del presente procedimento viene in rilievo che l’art. 6 della citata legge, introduce il nuovo art. 590- sexies c.p. rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” ove è stabilito che: se i fatti di cui agli artt. 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi presenti salvo quanto disposto dal secondo comma.
Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi della legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che, le raccomandazioni previste dalle predette linee guida, risultino adeguate alla specificità del caso concreto.
Nel caso di specie, l’entrata in vigore delle disposizioni ora richiamate assume rilievo nell’ambito del giudizio di rinvio, posto che la Corte di Appello richiamata dovrà verificare l’ambito applicativo della sopravvenuta norma sostanziale di riferimento, disciplinante la responsabilità colposa per morte o lesioni personali provocate da parte del sanitario. Lo scrutinio dovrà riguardare l’individuazione della norma più favorevole tra quelle succedutesi nel tempo ed applicarla al caso in giudizio ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 comma 4, c.p.
Ora attenderemo l’esito del giudizio di rinvio, stante anche il fatto che nel frattempo anche la novella della Legge Gelli si frappone nel caso di cui trattasi.
Adi.it
Dott. Carlo Pisaniello
Nursenews.eu
Alfio Stiro