Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1384/2010, ripropone un delicato problema che riguarda la professione infermieristica (ma anche quella medica) in ordine alla somministrazione di farmaci da parte di Operatori socio sanitari (Oss) e ausiliari – anziché da infermieri – a persone con disabilità, più o meno marcata, non autosufficienti, che vengono ospitate in strutture residenziali protette territoriali.
In questa nostra disamina si è partiti dall’analisi della pronuncia del Consiglio di Stato alla luce dell’interrogazione – ancora in corso – dell’On. Palagiano al Ministro della salute, in merito alla vicenda avvenuta presso strutture residenziali dell’Azienda Usl 11 di Empoli, passando poi ai risultati di uno studio di uno studente del Master in Management infermieristico per le funzioni di coordinamento della Facoltà di medicina e chirurgia “A. Gemelli” di Roma, svolto in residenze sanitarie assistenziali (Rsa); non in ultimo riferendoci a una pronuncia del Tar. dell’Emilia-Romagna del 2009, per concludere con alcuni rilievi dei Nas per la Tutela della salute di una provincia italiana a seguito di ispezioni in comunità residenziali per disabili.
L’obiettivo postoci è di riflettere sulla somministrazione dei farmaci e sulle procedure assistenziali complesse nelle strutture per disabili: le condizioni operative che emergono sia da studi, sia da verifiche ispettive degli organi di vigilanza, confermano situazioni di rischio manifesto o latente, che è il caso di approfondire. Si tratta di pochi elementi documentali, ma significativi, per una breve riflessione sul tema che interessa in prospettiva crescente la professione infermieristica e gli Oss.
Operatori e professionisti delle strutture per disabili
Le strutture territoriali di ricovero/alloggio per disabili (anziani o giovani) sorgono in via crescente per l’“integrazione tra servizi sociali, socio-sanitari e sanitari per favorire l’integrazione delle persone con disabilità nei servizi diurni e residenziali”, che in concreto si traduce in una forma di ospitalità protetta ed a costo contenuto in piccole-medie strutture con carattere assistenziale.
La tipologia di assistenza erogata in queste strutture, prettamente di carattere alberghiero, si caratterizza sostanzialmente per l’intervento di Operatori socio sanitari (Oss) e/o Operatori tecnici addetti all’assistenza (Ota): queste figure dovrebbero essere gestite da infermieri o al massimo da assistenti sociali, mentre invece si riscontra soventemente il loro coordinamento da parte di figure professionali quali psicologi, educatori od altro.
La componente infermieristica (complessa e specialistica) dovrebbe essere in realtà molto limitata, in quanto i disabili in queste strutture residenziali dovrebbero essere sostanzialmente autosufficienti, ed affidata agli infermieri dei servizi territoriali domiciliari di continuità assistenziale, facenti capo ai Distretti socio-sanitari della aziende Ulss.
La realtà concreta, invece, mette in evidenza situazioni residenziali – in particolare quelle per gli anziani – chiamate a farsi carico di una utenza caratterizzata non solo da età sempre più avanzata e da elevati livelli di disabilità, ma anche da una crescente complessità ed instabilità delle condizioni cliniche degli ospiti[1].
La gestione della complessità assistenziale non viene assegnata ad infermieri presenti e stabili della struttura, ma dell’Azienda Ulss di pertinenza; questi si limitano ad accedere alla residenza in genere una volta al giorno, al mattino, per predisporre i farmaci da somministrare ai disabili ed effettuare, sempre nell’occasione, le procedure infermieristiche più complesse, lasciando per il resto del giorno e della notte gli assistiti affidati agli Oss.
I Nas hanno riscontrato in un caso che gli infermieri di un’azienda Ulss accedevano nelle strutture residenziali una volta al mese (anziché tre volte alla settimana) e che nella realtà “la predisposizione dei farmaci nelle loro confezioni originali all’interno di uno specifico contenitore chiuso corredato di nome e cognome dell’assistito, verificandone (…)” non è svolta dall’infermiere del Distretto socio-sanitario, unica figura infermieristica che interviene in struttura, ma dagli Oss di turno.
I militi dell’Arma “non hanno potuto accertare se nella realtà la prevista verifica periodica delle scadenze dei medicinali, indicata dalle procedure dell’azienda Ulss a carico dell’infermiere, venga svolta (…) di fatto non risulta mai annotata nelle schede degli ospiti (…) una data di scadenza prossima, sebbene si sia riscontrata la presenza, tra i medicinali da somministrare, di confezioni in prossima scadenza”.
In questa struttura trovano ospitalità soggetti disabili con catetere e prescrizione di alimentazione enterale (Peg) e che si alimentano esclusivamente per questa via mediante “nutrizione artificiale con l’impiego di specifica apparecchiatura medico-terapeutica di proprietà dell’Azienda Ulss” sempre a cura degli Oss.
In dette strutture residenziali vi sono ospiti disabili sotto trattamento con dicumarolici oppure insulino-dipendenti con relativo controllo della glicemia. Questi sono alcuni dei rilievi attestati dai Carabinieri per la Tutela della salute nelle verifiche ispettive, anche a distanza di tempo, nelle medesime strutture.
Quanto rilevato dai Nas è in linea con i risultati della ricerca citata[2], dalla quale emerge che nell’80% dei casi è l’infermiere che prepara la terapia farmacologia, somministrata poi dagli Oss. Sempre in questa ricerca emerge che l’affidamento all’Oss dell’attività di somministrazione della terapia enterale (più raramente di preparazione) avviene in situazioni di emergenza o per terapia di routine nel 40% delle Rsa. Solo nel 20% delle strutture (3 Rsa) l’infermiere affida l’attività di terapia enterale all’Oss, valutandone preventivamente le capacità di garantire sicurezza nell’esecuzione, ma solo in 1 di queste 3 strutture è in uso una procedura di valutazione scritta dell’operatore di supporto. Inoltre, nelle Rsa campione della ricerca la prescrizione della terapia da parte del medico nel 55% dei casi avviene per iscritto, mentre nel rimanente 43% dei casi oralmente o telefonicamente. Citiamo quest’ultimo dato in relazione ad un fattore di rischio per possibili errori di somministrazione dei farmaci: l’errore di trascrizione delle prescrizioni mediche.
Infine, l’indagine ha evidenziato comportamenti pericolosi:
nel 24% delle Rsa la terapia è preparata con largo anticipo (dalle 8 alle 16 ore precedenti);
nel 45% dei casi le persone che preparano sono diverse da quelle che somministrano;
nel 68% delle Rsa dove sono persone diverse che preparano e somministrano la terapia, non si effettua la registrazione dell’avvenuta somministrazione.
Nel quadro che abbiamo cercato di delineare si può più facilmente comprendere il pronunciamento del Consiglio di Stato avverso all’Azienda Usl 11 di Empoli, colpevole dell’avere emanato ordini di servizio (del 29 luglio e del 30 ottobre 1997) verso gli Oss di un suo Centro diurno per la socializzazione dei disabili, disponendo loro di procedere alla somministrazione di farmaci per via orale a soggetti disabili dimoranti nella stessa struttura, confermando il precedente pronunciamento del Tar della Toscana che si era così espresso: “considerato che in relazione alla finalità del Centro presso cui prestano servizio i ricorrenti (riabilitazione, socializzazione ed integrazione di disabili) ed allo stato anormale dei destinatari dei relativi servizi e trattandosi di somministrare medicine particolari (antiepilettici, cardiotonici, psicofarmaci) a soggetti disabili, ne ha tratto la conseguenza che la valutazione del momento della loro somministrazione richiede sicuramente una qualificazione oltre che esperienza professionale, per cui tale somministrazione è del tutto estranea ai compiti di personale con qualifiche diverse da quella infermieristica”.
L’appello dell’Azienda Usl 11 di Empoli al Consiglio di Stato[3] è stato dichiarato infondato ed i giudici hanno stabilito che “in relazione alle finalità del Centro presso cui prestano servizio i ricorrenti (riabilitazione, socializzazione ed integrazione di disabili) ed allo stato anormale dei destinatari dei relativi servizi, la somministrazione di medicine particolari (antiepilettici, cardiotonici, psicofarmaci) a soggetti disabili, richiede la valutazione del momento della loro somministrazione e perciò una qualificazione oltre che esperienza professionale non posseduta dagli interessati. Con la conseguenza che la somministrazione di tali farmaci è del tutto estranea ai compiti di personale con qualifiche diverse da quelle infermieristiche (…). Irrilevante è poi la circostanza che il Centro in questione non abbia carattere sanitario in quanto è la necessità della somministrazione di farmaci agli ospiti del Centro che comporta l’esigenza di disporre di personale infermieristico per fare fronte a tale incombenza”.
In linea con la pronuncia del Consiglio di Stato abbiamo la precedente sentenza del Tar dell’Emilia-Romagna Parma del 2009[4], sul ricorso avverso alla ordinanza urgente di immediata cessazione dell’attività socio-assistenziale in una casa famiglia che accoglie fino ad un massimo di sei ospiti, stabilendo che “è legittima l’ordinanza contingibile ed urgente adottata dal Sindaco (di Parma) anche sul presupposto dell’accertata presenza, tra gli ospiti della implicata struttura socio-assistenziale, di persone non autosufficienti: circostanza comportante l’inapplicabilità, alla fattispecie, della normativa regionale (dell’Emilia-Romagna) contemplante un particolare regime di semplificazione della gestione delle case-famiglia aventi determinati requisiti e, di conseguenza, la necessità per le stesse di dotarsi, alla stregua di ogni normale struttura socio-sanitaria, di un infermiere professionale per la somministrazione dei farmaci ai degenti non autosufficienti, la cui presenza esige necessariamente che la struttura debba garantire a tali soggetti anche l’assistenza infermieristica, quanto meno per assicurare loro la corretta applicazione delle impartite prescrizioni diagnostico-terapeutiche”.
Quanto venuto all’attenzione con la sentenza n. 1384/2010 del Consiglio di Stato ha fatto emergere ulteriori situazioni anomale e di non conformità che vedrebbero “infermieri addirittura “imporre” ad Oss di provvedere alla somministrazione dei farmaci, nonostante questa esplicita mansione non possa essere richiesta agli operatori socio sanitari”, tanto che è stata anche richiamata in una interrogazione a risposta scritta alla Camera dei Deputati rivolta al Ministro della salute e tuttora in corso[5].
Il valore aggiuntivo e di maggiore sicurezza nel poter disporre in tali strutture di personale infermieristico qualificato, oltre a quello di supporto alberghiero, viene confermato nella bibliografia anglosassone di Needleman et al., Aiken et al.
Discussione
È evidente che alcune scelte organizzative relative alle strutture residenziali di assistenza avvengono anche sulla scorta di valutazioni di carattere economico, così com’è noto che il costo base di un infermiere si aggira intorno ai 36.000 euro rispetto a quello di un Oss di circa 28.000 euro.
Se il criterio organizzativo del personale, puramente economico (ovvero “di minore costo”), può trovare comprensione per un amministratore che rivolge la sua attenzione in primis agli aspetti di budget di struttura, non può trovare giustificazione per un dirigente, ovvero per un coordinatore infermieristico, l’inadeguatezza dei servizi infermieristici territoriali per le strutture residenziali per disabili.
In difetto di organizzazione di detti servizi infermieristici, ci si attende che il dirigente infermieristico si attivi senza ritardo per sanare le carenze strutturali, ovvero denunciare al responsabile aziendale l’impossibilità oggettiva di fronteggiare a tale obbligo di adempimento.
Egli infatti da un punto di vista giuridico ha oggi come ben noto, diversamente dal passato, una propria completa autonomia e un suo proprio ambito di responsabilità puntualmente individuato, in primis, dal profilo professionale (“è responsabile dell’assistenza infermieristica”), ed è chiamato a rispondere direttamente delle proprie azioni orientate al risultato assistenziale, con la necessaria conseguenza di sopportare le relative conseguenze di natura civile, penale e disciplinare.
Pertanto, qualora sorga una conseguenza dannosa per il paziente a seguito della evidenziata lacuna oggetto del presente lavoro, ovvero emerga la carenza a seguito di controlli dell’autorità preposta, e qualora risulti che il dirigente infermieristico non abbia cercato almeno di porvi rimedio, facendo quanto per lui possibile e segnalando comunque almeno la lacuna alla struttura, ebbene egli potrà ben trovarsi corresponsabile, da un punto di vista civile e penale, assieme alla struttura, per dette deficienze, lacune e danni provocati, in base al concetto di colpa (negligenza), pertanto risponderà degli eventuali danni e delle eventuali sanzioni.
Anche sotto il profilo disciplinare e del rispetto del Codice deontologico vi è da precisare che, se da un lato l’infermiere, ai sensi dell’articolo 49 del Codice[6] “nell’interesse primario degli assistiti, compensa le carenze ed i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui opera; rifiuta la compensazione, documentandone le ragioni, quando sia abituale o ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente il suo mandato professionale”, di contro, ai sensi dell’articolo 48 “ai diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o disservizi provvede a darne comunicazione ai responsabili professionali della struttura in cui opera o a cui afferisce il proprio assistito” ed inoltre, ai sensi dell’articolo 47, “ai diversi livelli di responsabilità, contribuisce ad orientare le politiche e lo sviluppo del sistema sanitario, al fine di garantire il rispetto dei diritti degli assistiti, l’utilizzo equo ed appropriato delle risorse e la valorizzazione del ruolo professionale”.
Sempre dal Codice deontologico, l’infermiere, ai sensi dell’articolo 17, “nell’agire professionale, è libero da condizionamenti derivanti da pressioni o interessi di assistiti, familiari, altri operatori, imprese, associazioni, organismi”, ai sensi dell’articolo 29, “concorre a promuovere le migliori condizioni di sicurezza dell’assistito e dei familiari e lo sviluppo della cultura dell’imparare dall’errore; partecipa alle iniziative per la gestione del rischio clinico” ed infine, ai sensi dell’articolo 32, “si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che ne limitano lo sviluppo o l’espressione, quando la famiglia ed il contesto non siano adeguati ai loro bisogni”.
Pertanto, in caso di impossibilità dell’Azienda Usl di erogare un adeguato servizio infermieristico territoriale presso le strutture per disabili, con particolari necessità terapeutiche assistenziali, l’amministrazione della struttura residenziale (pubblica o privata) è tenuta – in forza quantomeno dell’accreditamento regionale – all’adeguato servizio all’utenza disabile. Pertanto, se ritenuta necessaria un’assistenza con la presenza di infermieri nell’arco delle ventiquattrore per fornire prestazioni assistenziali più o meno complesse (ed affiancata da Oss), questa dovrà ottemperare con idonee risorse, scevra di qualsivoglia costrizione di carattere economico, in difetto delle quali ci troveremo di fronte ad una struttura di ricovero a rischio per gli ospiti.
Conclusioni
La ragione del servizio (sociale, socio-sanitario o sanitario) a minor costo, affidato pressoché solo ad Oss anziché ad infermieri, non solo contrasta con il livello minimo di sicurezza che deve essere garantito anche alle persone con disabilità e non autosufficienza che necessitano di prestazioni come la somministrazione di farmaci (soprattutto particolari), ma tanto meno è giustificabile ed è quindi sanzionabile, come dimostrato dal pronunciamento della magistratura di Stato.
Vi sono profili di responsabilità da parte dei rappresentanti legali delle strutture residenziali pubbliche e private, ancorché onlus, in quanto affidatari per la Regione di appartenenza di un servizio all’utenza con disabilità ed in quanto strutture accreditate in tale senso.
Tuttavia, come stabilito anche dal Consiglio di Stato, vi sono profili di responsabilità nei confronti delle Aziende Usl chiamate a fornire i servizi di continuità assistenziale infermieristica nelle strutture residenziali per disabili che non provvedono a garantirli, così come per quei dirigenti infermieristici delle stesse Usl tenuti ad organizzare i servizi infermieristici in modo adeguato e tale da rispondere alle necessità cliniche assistenziali dei soggetti non autosufficienti
Alfio Stiro
NurseNews.eu
Fonte Ipasvi