Responsabilità dei sanitari intervenuti in momenti diversi
responsabilità medica/sanitaria
Nel nostro ordinamento perché un evento lesivo possa essere imputato ad un soggetto è necessario accertare che sia stato da questi materialmente causato. Tale necessità risiede nell’esigenza di comprendere le ragioni scatenanti degli eventi e, in particolare, se essi siano riconducibili ad una determinata condotta. Il rapporto di causalità consiste, pertanto, nel nesso di congiunzione tra una condotta ed un evento. Si tratta di un elemento costitutivo del reato, che trova il suo fondamento normativo, a livello costituzionale, negli artt. 27 e 25, c. 2, e, a livello codicistico, negli artt. 40 e 41 c.p.. La disciplina del codice penale sul punto, tuttavia, è connotata da una certa vaghezza, non fornendo una definizione di causalità e non indicando i criteri processuali di accertamento della stessa. Al fine di colmare tale lacuna, in omaggio ad un principio di certezza giuridica, si è data vita ad una lunga evoluzione giurisprudenziale.
La teoria dominante, punto di partenza anche delle più recenti elaborazioni giurisprudenziali, è, senza dubbio, la teoria condizionalistica, ossia quella della c.d. condicio sine qua non. Secondo tale impostazione la condotta umana è causa dell’evento quando costituisce condizione necessaria per il suo prodursi e, quindi, ogni antecedente necessario al prodursi dell’evento deve considerarsi causa dello stesso. La teoria condizionalistica comporta quale risultato pratico l’equivalenza delle condizioni e ha come precipitato processuale il c.d. giudizio controfattuale. Il giudice, nel compiere la verifica causale, deve immaginare la condotta contestata all’imputato come mai avvenuta e chiedersi se l’evento si sarebbe ugualmente prodotto. Qualora verifichi che l’evento non si sarebbe verificato, dovrà concludere sostenendo che la condotta umana, nel caso di specie, è condotta necessaria; qualora, diversamente, verifichi che l’evento si sarebbe ugualmente prodotto, dovrà concludere nel senso che quella condotta non è causa dell’evento.
La teoria della c.d. condicio sine qua non, da tutti apprezzata e condivisa nella parte in cui sostiene che perché una condotta umana possa dirsi causa di un evento deve costituire condizione necessaria per la produzione dello stesso, è stata, tuttavia, criticata sotto alcuni profili. In particolare, è stata oggetto di critiche per via del silenzio in merito ai criteri e ai parametri che il giudice deve utilizzare per svolgere il giudizio controfattuale ed inoltre con riguardo al fatto che presa in considerazione da sola, tale teoria, presenta un eccessivo rigore applicativo, poiché spesso alla produzione di un evento concorrono tanti fattori causali, ulteriori e diversi rispetto alla condotta umana contestata all’imputato.
Quanto all’individuazione dei criteri necessari per lo svolgimento del giudizio controfattuale, la giurisprudenza, in un primo momento, ha ritenuto, facendo ricorso al c.d. metodo individualizzante, elaborato dalla dottrina, di poter ricostruire il nesso causale senza fare ricorso a leggi scientifiche dotate di un certo tasso di regolarità causale. Successivamente, la giurisprudenza ha sostenuto, che il giudice, in assenza di leggi scientifiche, potesse affidarsi alle generalizzazioni del senso comune, cioè di massime di esperienza. Tali indirizzi sono stati ben presto criticati poiché finivano per affidare all’arbitrio del giudice la ricostruzione di un elemento costitutivo del reato, qual è il nesso causale, rendendo questi, di fatto, un produttore, e non un mero consumatore, di leggi causali. A seguito di tali critiche, si è arrivati a ribadire la necessità per il giudice di fare riferimento a leggi scientifiche di copertura per la spiegazione dei meccanismi causali. Questa ultima ricostruzione della teoria condizionalistica ha trovato, poi, conferma in diverse pronunce della giurisprudenza di legittimità. In particolare, è opportuno porre l’attenzione sulla nota sentenza Franzese[1] delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, intervenuta nel 2002 con riguardo alla responsabilità medica, dalla quale è possibile ricavare una serie di principi per l’accertamento della causalità, valevoli, in linea generale, sia per quanto riguarda la causalità attiva che la causalità omissiva. Nella pronuncia i giudici di legittimità hanno affermato, appunto, che la teoria condizionalistica debba essere integrata dalla sussunzione sotto leggi scientifiche, poiché per sostenere che in assenza di una condotta l’evento lesivo non si sarebbe verificato deve esserci una legge scientifica di copertura ad assicurare che quella condotta rientra tra le possibili cause dell’evento. Per ritenere sussistente il rapporto di causalità è richiesto un livello probabilistico particolarmente elevato, vicino al 100%, che si identifica con la formula dell’oltre ogni ragionevole dubbio. La probabilità rilevante è quella logica, non quella statistica. Il passaggio dalla probabilità statistica, espressa dalla legge scientifica di copertura, alla probabilità logica, necessaria per l’accertamento del rapporto causale, avviene mediante l’analisi dei fattori eziologici alternativi che consentono quindi una verifica ulteriore, per il singolo evento, circa l’attendibilità della legge scientifica adottata. Espressamente respinto dalla sentenza Franzese è, invece, il criterio del c.d. aumento del rischio dell’evento al quale spesso si è fatto spesso riferimento in giurisprudenza in tema di causalità omissiva.
Quanto al secondo profilo, si è detto che la teoria condizionalistica, determinando la c.d. equivalenza delle condizioni, spesso comporta un rigore applicativo che appare iniquo, in quanto nel processo causale potrebbero essere coinvolti diversi fattori significativi, oltre alla condotta contestata all’imputato costituente condizione necessaria per il prodursi dell’evento. Di frequente, in ambito sanitario, accade, ad esempio, che la morte del paziente, evento conclusivo della catena causale, avvenga a seguito dell’ultimo errore terapeutico, nonostante, in un momento antecedente, ve ne sia stato un altro, commesso da un diverso medico.
In proposito si parla di causalità c.d. interrotta o sorpassante, facendo riferimento a quelle ipotesi in cui l’evento è riconducibile in via esclusiva al fattore sopravvenuto.
Il problema che si pone attiene all’esatta individuazione del responsabile dell’evento lesivo, cui quest’ultimo dovrà essere imputato. A tal fine, sono stati elaborati alcuni correttivi della teoria condizionalistica, quali: la teoria della causalità adeguata, la teoria della causalità umana e, da ultimo, la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento.
Il nucleo centrale della questione riguarda l’esatta interpretazione dell’art. 41, comma 2, c.p.[2]. La norma disciplina una particolare tipologia di concause aventi attitudine interruttiva del nesso causale poiché da sole sufficienti a determinare l’evento. Inizialmente, si sostenne che le concause sopravvenute dotate di attitudine interruttiva fossero esclusivamente le c.d. serie causali autonome, ossia quei fattori eccezionali, non prevedibili, capaci di produrre l’evento in modo indipendente perché del tutto avulsi dalla condotta criminosa antecedente. Tale impostazione è stata più volte seguita in giurisprudenza proprio al fine di giustificare l’esclusione di una eventuale idoneità interruttiva del nesso causale, tra una condotta preesistente e l’evento morte, all’errore del sanitario.
L’esposta interpretazione del comma 2 dell’art. 41 c.p. è stata esposta a diverse critiche. In primo luogo, si è evidenziato che una concausa sopravvenuta, interagendo inevitabilmente con la prima condotta, non può mai dirsi realmente autonoma e svincolata da essa, anche perché, se così fosse, basterebbe l’art. 40 c.p. per escludere il nesso causale.
Più di recente, si è sviluppata la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, secondo cui perché una condotta umana sia causa dell’evento è necessario che quest’ultimo non sia la concretizzazione di un rischio, diverso e nuovo, innescato da un fattore causale sopravvenuto rispetto alla condotta stessa. Secondo questa impostazione non è il criterio dell’eccezionalità quello cui far riferimento nell’individuazione della concausa con idoneità interruttiva del nesso causale, quanto piuttosto quello della novità del rischio innescato nella catena causale. Il rischio diverso e nuovo, per interrompere il rapporto di causalità, deve, pertanto, risultare da solo sufficiente a determinare l’evento.
I giudici della Corte di Cassazione, in due recentissime pronunce[3], hanno fatto applicazione di tale teoria, di derivazione germanica, con particolare riguardo ad ipotesi di morte da errori terapeutici commessi da sanitari intervenuti in momenti diversi. In entrambi i casi, fermo restando la responsabilità del secondo medico intervenuto commettendo l’errore, si è posto il problema di verificare se la condotta, errata, del primo sanitario abbia attitudine interruttiva del nesso causale o se sia da considerare, congiuntamente con la seconda, condizione necessaria, e quindi, causa dell’evento. Facendo applicazione, a questi casi, della sola teoria condizionalistica si dovrebbero ritenere responsabili entrambi i sanitari, in base al principio dell’equivalenza delle condizioni. La teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, invece, come già detto, impone di guardare alla novità del rischio innescato dal fattore sopravvenuto, a prescindere dalla sua eccezionalità. Pertanto, il nesso causale dovrà dirsi interrotto soltanto quando il fattore sopravvenuto sia tale da innescare un rischio del tutto eccentrico, avuto riguardo all’area di rischio cui risulta preposto e garante l’autore della condotta precedente. Nello specifico caso di intervento di più medici in momenti differenti, bisogna concludere nel senso che ognuno di essi è garante della propria area di rischio e che, quindi, l’errore, e il conseguente rischio innescato, dal secondo medico, se nuovo e diverso da quello precedente, è capace di interrompere il legame causale tra la condotta errata del primo sanitario e l’evento morte. Tale teoria, si è osservato, tende a sovrapporre e confondere il tema della causalità della condotta con quello della causalità della colpa, mentre il rigore applicativo della teoria condizionalistica può essere attenuato semplicemente facendo ricorso al concetto di colpa. Il profilo della causalità della colpa viene in rilievo con l’art. 43 c.p., in virtù del quale il delitto è colposo quando l’evento non è voluto e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia. La colpa si configura quando il comportamento alternativo lecito, e quindi la cautela richiesta, avrebbe ragionevolmente evitato il verificarsi dell’evento lesivo. È necessario che sussista un nesso di derivazione tra l’evento e la violazione della regola cautelare contestata, e che pertanto l’evento sia concretizzazione del rischio che quella determinata regola cautelare mira a prevenire. La causalità della condotta si distingue dalla causalità della colpa in merito ai criteri di accertamento, in quanto per l’accertamento della prima è sufficiente che vi siano significative e apprezzabili probabilità di evitare il danno, e non occorre, invece, la certezza processuale, al di là di ogni ragionevole dubbio. Seguendo quest’ultima impostazione, l’evento morte, nel caso di errori terapeutici commessi da più sanitari intervenuti in momenti diversi, verrebbe addebitato soltanto al sanitario che ha posto in essere la condotta errata, che ha concretizzato il rischio che la specifica regola cautelare a lui imposta voleva evitare.
[1] Cass. sez. un., 11 settembre 2002, Franzese “In tema di reato colposo omissivo improprio, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico chirurgo, il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’. L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.”
[2] “Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sè un reato, si applica la pena per questo stabilita.”
[3] Cass. pen. sez. IV, 28 luglio 2015, n. 33329; Cass. pen., sez. IV, 7 luglio 2016, n. 28246.
Fonte Diritto. It