E’ notorio come le mansioni rappresentino l’elemento fondamentale del sinallagma che sta alla base del contratto di lavoro, non essendo altro che la concretizzazione dell’attività che il prestatore si obbliga a compiere, nell’interesse del datore di lavoro in cambio di una retribuzione.
La loro regolamentazione ha rappresentato con tutta probabilità la prima emersione della funzione sociale del lavoro, in quanto regolamentare le mansioni (e in conseguenza gli orari di lavoro) ha contribuito a porre la componente lavoristica ad un livello di potere negoziale se non pari a quello della controparte, perlomeno in posizione meno disuguale.
Si tratta dunque di un elemento variabile in dipendenza di molteplici fattori, che è stato oggetto di posizioni anche rigide, assunte anche dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità e di plurimi interventi legislativi, più o meno organici nel corso degli anni.
Non può tuttavia negarsi la persistente esistenza di tensioni tra la dimensione contrattualistica del lavoro e gli aspetti di politica sociale; sono tensioni che spesso hanno portato la dottrina a dubitare delle ricostruzioni del contratto di lavoro in termini di mero scambio, con conseguente incertezza sulla applicabilità delle relative norme, sia codicistiche che speciali.
L’art. 2103 nel testo originario disponeva il principio di immutabilità delle mansioni, affermando che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto, attribuendo però al datore di lavoro il potere di adibire il lavoratore a mansione diversa, purché non comportante una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui (il lavoratore).
Nella prassi giurisprudenziale iniziale collegata alle previsioni codicistiche, l’unica reazione data al lavoratore per reagire al mutamento unilaterale delle mansioni e/o delle mansioni, era quasi sempre quella della rottura del contratto.
La situazione attuale è molto cambiata, ma quello che emerge dalla lettura della sentenza in commento è che resta necessario verificare se le mansioni richieste al lavoratore (prescindendo dal differente inquadramento) comportino un vulnus cosi grave ed irreparabile alla professionalità, tale da legittimare il rifiuto a svolgere le mansioni senza neppure poter attendere il necessario avallo giudiziale.
Per comprendere le basi del ragionamento occorre muovere dalla teoria che implica la tutela dinamica della professionalità tenendo presente che si tratta di un elemento che deve necessariamente avere un elevato grado di evolutività per potersi adattare ai moderni schemi di produzione e di organizzazione industriale; inizialmente lo strumento di derivazione curiale, è stato quello delle mansioni c.d. equivalenti che, senza comprimere la professionalità del lavoratore consentiva anzi di intraprendere esperienze diverse ed arricchenti proprio in considerazione del proprio vissuto.
Si aveva quindi una mobilità quasi esclusivamente verticale (verso l’alto) o al più orizzontale, ma l’ultima riforma attualmente in vigore ha ulteriormente modificato il quadro di riferimento, consentendo in alcuni casi addirittura la mobilità verso il basso – sia in termini di mansioni che di retribuzione – in alternativa al licenziamento.
Ma ciò che nel caso di specie ha portato la Corte di Cass. Civ. sez. lav. (sentenza 9060 del 5 maggio 2016) a confermare la sentenza di merito non è la legittimità del licenziamento, quanto il rifiuto del lavoratore di prestare le mansioni richieste, in pendenza della possibile ma comunque necessaria verifica dell’equivalenza dell’inquadramento, funzione che è rimessa ai Tribunali, un aspetto come spesso capita, tecnico-processuale.
Se infatti si conferma che il lavoratore adibito a mansioni non corrispondenti alla qualifica, può chiedere la riconduzione della prestazione all’interno della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi, aprioristicamente, di eseguire la prestazione richiestagli, in quanto è tenuto ad osservare le disposizioni di lavoro impartite dall’imprenditore.
Vi è tuttavia qualcosa su cui riflettere ancora a margine della sentenza in commento, ed è l’affermazione esplicita dell’assenza di danno e del periculum in mora per disapplicare il principio di autotutela ai sensi dell’art. 1460 c.c., in via generale, però si deve tenere conto della specialità che rivestono le c.d. professioni titolate, ossia le professioni per accedere alle quali è necessario il previo possesso di un titolo di studio, il più delle volte accademico. Tra queste professioni rientra- all’indomani della riforma del sistema universitario – anche quella dell’infermiere.
Non vi è chi non veda come l’adibizione prolungata a mansioni inferiori, possa di certo comportare un danno alla professionalità acquisita dal lavoratore, impedendo il necessario aggiornamento per perseguire – una volta terminata la parentesi delle mansioni inferiori – la carriera per la quale aveva studiato ed impegnato risorse fisiche, economiche e mentali.
Secondo la giurisprudenza, sul punto il demansionamento comporta un danno alla dignità ed alla professionalità del dipendente – beni tutti protetti a livello costituzionale – ed un danno da perdita di opportunità nel mercato del lavoro, in conseguenza del diminuito livello professionale si conferma quindi come tale tendenza dia luogo ad una pluralità di pregiudizi, non esclusivamente corrispondenti al danno economico, ma che costituiscono, in ultima analisi, lesione alla personalità professionale del lavoratore.
Si tratta infatti di una voce specifica di danno patrimoniale qualificato come una diminuzione delle nozioni tecniche, della capacità pratica o comunque di vantaggi connessi all’esperienza professionale conseguenti al mancato esercizio delle mansioni spettanti per un tempo più o meno lungo che comporta, in misura variabile e non esclusiva:
– pregiudizio alla carriera;
– impoverimento della capacità professionale;
– diminuzione delle attitudini lavorative;
– mancata acquisizione di maggiore capacità professionale;
– impedimento per il lavoratore di sfruttare possibili future occasioni di lavoro;
In conclusione si deve rilevare che la pronuncia in commento – nel ritenere insussistente il periculum in mora e quindi sproporzionato e non corrispondente a buona fede il rifiuto opposto dalla lavoratrice – non ha tenuto conto che nelle professioni specialistiche la professionalità acquisita dal dipendente una volta lesa da un demansionamento non può trovare ristoro in provvedimenti successivi a prevalente contenuto patrimoniale, poiché questi ultimi non assicurano al dipendente il ripristino della credibilità professionale, anche in relazione alla rapida evolutività delle tecniche proprie della specifica professione, rispetto alla quale il tempo (più o meno breve) trascorso svolgendo mansioni non corrispondenti crea uno iato che, nella maggioranza dei casi, si rivela difficilmente colmabile.
Si tratta certamente di un danno la cui mancata tutela dipende – nell’opinione di chi scrive – da un’eccessiva stratificazione normativa ovvero da una semplificazione spinta dei riti processuali nei quali però neppure i provvedimenti d’urgenza fanno più onore al proprio titolo.
Cassazione sentenza n. 9060 del 5 maggio 2016
Avv. Silvia Assennato